Vangelo

11 Accadde che, durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. 12 Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, 13 alzarono la voce, dicendo: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!” 14 Appena li vide, Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono sanati. 15 Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; 16 e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un samaritano. 17 Ma Gesù osservò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? 18 Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” 19 E gli disse: “Alzati e và; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,11-19).

                                              Dieci guarigioni e un miracolo

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

Avendo compassione delle sofferenze fisiche di dieci lebbrosi, Nostro Signore ha voluto concedere loro la guarigione miracolosa che avevano chiesto fiduciosi. Ma siccome soltanto uno di loro ha espresso la sua gratitudine, costui è stato l’unico favorito con il miracolo più importante. 

I – Il dovere di gratitudine delle anime beneficiate

  Rare volte interrompiamo le occupazioni quotidiane per considerare quanti beni ci sono concessi dalla Divina Provvidenza nel corso della nostra vita, sebbene non li abbiamo chiesti o tantomeno desiderati. Se andiamo fino alla radice di tali benefici, dobbiamo ricordare che non esisteremmo senza un disegno di Dio. A partire dal nulla, Egli ha via via costituito la diversità degli esseri, nel corso dei sei giorni della creazione, come è descritto nella Genesi, fino a modellare Adamo dalla terra ed Eva dalla sua costola, infondendo in loro la vita. E ogni nascita, che si verifica in ogni istante nel mondo intero, è un fatto straordinario perché alla legge fisica si aggiunge una legge spirituale: Dio infonde un’anima intelligente, creata con il semplice desiderio della sua volontà, in un corpo concepito con il concorso del padre e della madre.1 E tutto il resto – la salute, il cibo, il riposo, il conforto – viene da lui, direttamente o indirettamente. Inoltre, il Creatore promette, una volta valicate le soglie della morte, un grande miracolo: dopo che i nostri corpi avranno subito la decomposizione, tornando alla terra da cui siamo stati fatti, riassumeremo un corpo glorioso che si unirà di nuovo alla nostra anima, ora nella visione beatifica, e godremo della felicità di Dio per tutta l’eternità.

  Quanta bontà! Ma… com’è la nostra risposta? Siamo grati per tutto quanto riceviamo? Questa è la domanda che sorge considerando il Vangelo della 28ª Domenica del Tempo Ordinario che ci mostra i differenti atteggiamenti assunti da chi è oggetto di un grande beneficio proveniente dalle generose mani del Salvatore.

II – Due classi di miracolo: del corpo e dello spirito

  All’epoca di Nostro Signore, il lebbroso, a causa della mancanza di aiuti medici che rendessero possibile il suo trattamento – carenza che si prolungò per molti secoli –, era un paria disprezzato dalla società. Una volta rivelata l’infermità, egli si presentava al sacerdote che, dopo un esame minuzioso, lo dichiarava legalmente impuro mediante un cerimoniale appropriato. Se è vero che egli non era deportato in un’isola, secondo il costume adottato in tempi più recenti, doveva, però, assentarsi dalla città, dal convivio umano e vivere isolato in campagna. Lo obbligavano, inoltre, a utilizzare una veste caratteristica per annunciare la situazione di scomunica sociale in cui si trovava e a seguire certe norme come quella di muoversi suonando una campanella per indicare la sua presenza, in modo che le persone aprissero un varco, evitando il rischio di contaminazione per contatto o per la semplice vicinanza. Approssimandosi a qualcuno oltre il dovuto, riceveva immediatamente una severa reprimenda, per il panico generato di fronte al pericolo di contaminazione. Si trascinava così “lamentandosi della sua situazione come avrebbe fatto per un defunto, con le vesti stracciate, la testa scoperta e la barba coperta con il suo manto, gridando ai passanti, affinché non si avvicinassero: ‘Immondo!’”.2

  Nel corso di una vita senza prospettiva di guarigione, avrebbe visto le proprie membra imputridire fino a cadere, in un processo che causava un nauseabondo odore e malesseri vari.3 Tale stato produceva, com’è comprensibile, un profondo trauma psicologico. Inoltre, siccome le malattie erano ritenute, a quel tempo, come un castigo per i propri peccati o per quelli commessi dagli antenati, la lebbra portava con sé anche un dramma morale: esser lebbroso di corpo significava, innanzitutto, possedere lebbra di anima. “Ci troviamo di fronte a idee popolari tra gli antichi, in cui si mescola il religioso e il naturale. Il lebbroso si considerava castigato da Dio in virtù di peccati occulti”.4 In questo contesto sociale, si svolge la scena raccolta da San Luca.

Uniti per supplicare un miracolo

11 Accadde che, durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. 12 Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, 13 alzarono la voce, dicendo: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!” 

  Recita un detto che la disgrazia condivisa è sempre più gioiosa. I dieci lebbrosi di cui parla il Vangelo formavano una società tra loro, e in questo modo rendevano le loro pene più sopportabili e garantivano una compagnia fino a che sopravveniva la morte, termine obbligato di quella lenta e dolorosa infermità. Senza dubbio, avevano già sentito parlare del Maestro e sapevano delle numerose guarigioni da Lui operate, tra le quali se ne contavano varie del male di cui soffrivano. Ricevendo la notizia dell’avvicinarsi del Divino Taumaturgo, subito si misero in cammino nel tentativo di avere un incontro con Nostro Signore, con la speranza che non sorgesse un qualche ostacolo che impedisse loro un contatto, anche da lontano.

  Infatti, dal racconto evangelico vediamo come questi dieci lebbrosi compivano i precetti legali, in ciò che si riferisce alla loro terribile malattia. Per tale motivo non osarono avvicinarsi troppo a Gesù, e mettendosi a una certa distanza implorarono la guarigione, per misericordia. Essi obbedirono alla Legge, sì, ma mancò loro fervore per inginocchiarsi tutti insieme davanti a Cristo, che certamente li avrebbe toccati e guariti in quel momento, come nell’episodio prima accaduto con un altro lebbroso (cfr. Mt 8, 2-4; Mc 1, 40-45; Lc 5, 12-16).

  Questo fatto ci serve da lezione per la vita spirituale: trattandosi del rapporto con Gesù, dobbiamo agire con piena fiducia e massima intimità, non temendo mai di ricorrere a Lui, per gravi che siano gli errori morali che ci pesano sulla coscienza.

Una prova per la fede dei lebbrosi

14 Appena li vide, Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono sanati. 

  Accorgendosi subito del loro arrivo, Nostro Signore li guardò. Egli non operò la guarigione subito, per non voler causare troppo stupore nell’opinione pubblica. Così, facendosi un po’ largo in mezzo alla moltitudine che stava presso di Lui, ordinò, con autorità, che andassero a presentarsi ai sacerdoti.

  In quell’epoca era molto rara la guarigione dalla lebbra. Nelle poche occasioni in cui questo accadeva realmente, o quando costatato che la stessa diagnosi iniziale era stata sbagliata, essendo il lebbroso ormai conosciuto come tale nella regione, avrebbe dovuto per Legge presentarsi a un sacerdote. Costui redigeva un atto nel quale riportava le caratteristiche del caso, dai primi sintomi fino alla scomparsa dell’infermità, e il documento rendeva possibile all’antico malato la reintegrazione nel convivio sociale (cfr. Lv 14, 1-32).

  Dunque, il Maestro decise questa misura, sebbene non ci fossero segni visibili di guarigione. La pronta obbedienza dei dieci lebbrosi evidenzia la fede che possedevano in Gesù – frutto certamente di una mozione della grazia, infusa dallo stesso Uomo-Dio – e denota la forte convinzione che Egli li avrebbe guariti durante il percorso. Essendo tutti d’accordo di osservare questa norma, intrapresero il viaggio verso Gerusalemme.

  Possiamo congetturare che essi partirono insieme, sperimentando una grande consolazione interiore, poiché Nostro Signore stava creando grazie per alimentare nelle loro anime la fede nella propria guarigione. E ciascuno, secondo la sua credenza e temperamento, avrebbe dimostrato questo in un modo differente dagli altri. Tra loro, uno più silenzioso avrà pensato, chissà, ad una lebbra peggiore di quella del corpo, che era quella del peccato, poiché viveva lontano dalla religione vera… era samaritano. Confidando nella guarigione, meditava sul modo di esser meglio all’altezza del prodigio di cui tra breve sarebbe stato oggetto.

  Finalmente, durante il percorso, si resero conto che la lebbra li aveva abbandonati e, senza dubbio, proruppero in grida di gioia. La gravità del male di cui si videro liberi concorre ancor più a certificare la grandezza del miracolo operato. Affrettarono allora il passo per ottenere quanto prima l’attestato di guarigione.

La gratitudine di uno solo

15 Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; 16 e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un samaritano

  Ci fu uno, tuttavia, che invece di dirigersi verso il Tempio, decise di tornare per ringraziare Gesù, cantando le glorie di Dio e manifestando l’enorme gioia per aver incontrato Uno cui appoggiarsi e seguire. Era quello che aveva contratto non solo la lebbra fisica, ma anche la lebbra dell’anima. Se egli aveva seguito inizialmente gli altri malati per presentarsi al sacerdote, era solo perché costituiva una società con loro, poiché, non essendo israelita, era esente da tale obbligo. Senza dubbio, a partire dal momento in cui furono guariti, la comunità perdeva la sua ragion d’essere e lui diventava agli occhi degli altri uno straniero infedele, un samaritano qualsiasi e, pertanto, odiato e maltrattato dai Giudei.

  Vedendo il Signore attorniato da gente, si avvicinò a Lui, aprendo con la sua presenza un vuoto di ripugnanza nel gruppo. Tuttavia, mentre egli avanzava, tutti erano in grado di verificare la sua carnagione completamente modificata, perché indubbiamente, come era accaduto a Naaman – la cui guarigione è narrata dalla prima lettura di questa domenica – “la sua pelle era diventata come quella di un bambino” (II Re 5, 14), bianca, senza alcuna scottatura del sole, dando anche l’impressione di essere un po’ ingrassato. Vedendo il cambiamento, la moltitudine rimase colpita. Avvicinatosi al Divino Maestro, il samaritano si prostrò per terra, in adorazione.

  Più ancora del precetto legale di certificare la guarigione, il principale obbligo di tutti era ringraziare Colui che li aveva guariti. Quando Nostro Signore disse “andate a presentarvi ai sacerdoti”, Egli non aveva loro proibito di esprimere riconoscenza al benefattore. Fece loro solo una raccomandazione, non volendo ferire il libero arbitrio dei lebbrosi col rispettare questa facoltà che ci è offerta di scegliere il bene5, né volendo far perdere loro il merito che avrebbero acquisito con la gratitudine. Tuttavia, disdegnando l’opportunità, gli altri nove decisero di procedere in direzione contraria a quella di Gesù. Più ancora, nulla contraddice l’ipotesi che sarebbero ritornati più tardi alla loro vita normale, dimenticandosi completamente di Chi li aveva beneficiati.

Colposa omissione

17 Ma Gesù osservò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? 18 Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” 19 E gli disse: “Alzati e và; la tua fede ti ha salvato”. 

  La sorpresa manifestata da Nostro Signore aveva un intento formativo su coloro che Lo attorniavano e ci porta a fare la seguente riflessione: dieci furono guariti dalla lebbra in modo miracoloso e, tra questi, nove ritornarono all’ambiente sociale in cui vivevano prima di contrarre l’infermità. Appartenenti all’establishment locale, erano desiderosi di reintegrarsi nell’ambiente mondano e davano più importanza all’ambiente corrotto e nel quale erano stati contagiati dalla lebbra, che al convivio con il Maestro. Questa era la gratitudine del popolo Giudeo, il più favorito tra tutti, una volta che il Messia era venuto in primo luogo per le “pecorelle perdute della casa di Israele” (Mt 15, 24)… Come evidenzia Maldonado, “quelli, in quanto giudei, certamente avrebbero dovuto mostrarsi più grati a Dio, come il loro stesso nome gli ricordava e invece furono i più ingrati; quelli che avevano un motivo speciale per riconoscere e ricevere Cristo come il loro liberatore, che era stato inviato proprio per loro, erano quelli che sembravano conoscerLo meno degli altri”.6

  Per loro, l’episodio della guarigione operata da Nostro Signore era cosa passata. Oggi ignoriamo che fine hanno fatto, poiché scomparvero dalla Storia.

Per la mancanza di gratitudine, è rifiutato un miracolo ancora maggiore

  Tale ingratitudine in relazione a Dio forse porta all’inferno, poiché può scatenare una grande quantità di altri peccati. “Il primo grado d’ingratitudine”, insegna San Tommaso d’Aquino, “è l’assenza di riconoscenza, il secondo è la dissimulazione, ossia, quasi si nasconde il fatto di aver ricevuto il beneficio e infine il terzo e più grave consiste nel non riconoscere il beneficio, sia per dimenticanza sia in qualsiasi altro modo”.7

  È necessario, soprattutto, considerare che, oltre alla lebbra fisica, soffrivano anche di una lebbra morale chiamata mondanità, che li rendeva ciechi di Dio e faceva sì che riponessero la loro felicità nel prestigio sociale. Il Maestro li guarì dalla prima affinché potessero, al momento di tornare e ringraziare, essere guariti dalla seconda. Tuttavia, per l’ingratitudine, accentuarono ancor più la lebbra morale, sebbene fossero liberi da quella fisica. Questo ci deve portare a riflettere sul pericolo di certe relazioni umane che non ci approssimano a Gesù. Può essere che in un determinato momento abbiamo da riconoscerGli qualche dono o favore e, purtroppo, ci dimentichiamo di questo dovere per dar più valore alle amicizie terrene.

Il samaritano è favorito con un altro miracolo prodigioso

   All’estremo opposto di questa postura si trova il decimo lebbroso, originario dalla Samaria, regione abitata da un popolo macchiato da secoli d’infedeltà alla vera religione. Una volta recuperata la salute, egli non aveva a chi ricorrere e, percependo il grande bene che gli era stato fatto, seppe cercare la società vera. Egli non chiese il perdono dei suoi peccati, la salvezza o anche l’entrata nel Regno dei Cieli, né supplicò come il Buon Ladrone sulla croce: “Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23, 42). Però, egli ringraziò e a partire da questo atto di gratitudine, Gesù lo favorì con un miracolo maggiore della guarigione dalla lebbra: il perdono dei peccati.

  Quando otteniamo un miracolo e siamo grati, ne otteniamo un altro maggiore di quello richiesto, poiché Dio sa delle nostre necessità. Questo duplice miracolato probabilmente ha seguito Gesù dappertutto e possiamo congetturare che egli sia uno dei santi che oggi popolano il Cielo e godono del convivio con la Santissima Trinità. Gli altri nove, di che sentenza diventarono meritevoli? Non ci è dato conoscere il destino delle anime post-mortem, ma forse sono andati, quanto meno, in Purgatorio, per una simile ingratitudine… Per questo, quanto dobbiamo temere il pericolo arrecato alla vita spirituale da un’atteggiamento simile al loro in relazione ai beni ricevuti dal Salvatore!

 III – La lebbra, infermità simbolica

   In questo passo, Cristo ci mostra la lebbra come una malattia simbolica, poiché essa distrugge l’organismo e deforma la bellezza del sembiante. Ora, molto peggiore della lebbra fisica è quella spirituale contratta da chi commette un peccato mortale. Se la lebbra fisica provoca il disfacimento del corpo, quella dello spirito infetta l’anima, la rende repellente agli occhi di Dio e fa sì che la persona diventi schiava delle sue cattive tendenze e passioni. Il lebbroso fisico era espulso dalla società mentre quello spirituale è ritirato da una società molto più eccellente, quella divina, con la privazione della grazia santificante, delle virtù, dei doni, di tutto l’organismo soprannaturale e, soprattutto, dell’inabitazione della Santissima Trinità. “La legge dei Giudei considera la lebbra come un’infermità immonda, mentre la Legge del Vangelo non considera immonda la lebbra esteriore, invece sì quella interiore”.8 La lebbra fisica è contagiosa, caratteristica verificata anche in quella dell’anima, poiché la persona che abbraccia le vie del peccato finirà per causare scandali che porteranno altri alla rovina spirituale. Se la lebbra fisica, dopo una vita infelice, portava alla morte, la lebbra del peccato rende amara l’esistenza e conduce a una morte molto più terribile: l’eterna infelicità, nell’inferno. La lebbra fisica raggiunge soltanto il corpo, ma se il malato affronta la situazione con cristiana rassegnazione e spirito soprannaturale progredirà nella virtù, potendo arrivare a esser santo. Il peccato, sebbene possa esser commesso senza sufficiente nozione della gravità delle sue conseguenze, distrugge la vita divina nell’anima, che è la sua maggiore bellezza, danno molto peggiore che distruggere la bellezza del corpo e la salute.

La scena si ripete nel corso della Storia

  Il miracolo operato da Nostro Signore, guarendo i dieci lebbrosi, Egli continua a realizzarlo in ogni istante in favore di qualsiasi peccatore che, pentito, venga a supplicare il suo perdono. Egli esige soltanto che si obbedisca alla stessa raccomandazione data ai lebbrosi: presentarsi al sacerdote. Questa prescrizione legale non sarebbe che una prefigurazione dell’assoluzione sacramentale, istituita dal Signore Gesù, per la quale le nostre anime sono purificate dalla lebbra del peccato.

  Il Vangelo di oggi ci suggerisce un’attualissima applicazione. Non abbiamo una lebbra fisica, però, non sempre possiamo dire che siamo esenti dalla lebbra spirituale. E in quante occasioni siamo stati beneficiati più dei dieci lebbrosi… E’ necessario, dunque, non agire come i nove ingrati, ma imitare l’esempio del samaritano: tornare per ringraziare il Signore per averci guarito tante volte dalla lebbra interiore, a cominciare dalla maledizione del peccato originale, anch’esso da Lui abolito.

La pratica della vera gratitudine

  Intanto, quanto rara è la virtù della gratitudine! Molte volte essa si pratica solo per educazione e con mere parole. Tuttavia, per esser autentica, è necessario che essa trabocchi dal cuore con sincerità. Purtroppo, afferma il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira, “la virtù della gratitudine è intesa oggi in un modo contabile. Di modo che, se uno mi fa un beneficio, io devo rispondere, contabilisticamente, con una porzione di gratitudine uguale al beneficio ricevuto. C’è, pertanto, una specie di pagamento: un favore si paga mediante l’affetto, proprio come la mercanzia si paga mediante il denaro. Allora, io ho ricevuto un favore e devo strappare da dentro la mia anima un sentimento di gratitudine. Non ho più debiti, provo sollievo, sono libero da obblighi”.9 Questa è una forma pagana, materialista, di concepire la gratitudine. Ben differente è questa virtù quando impregnata di spirito cattolico.

  “La gratitudine è, in primo luogo, il riconoscimento del valore del beneficio ricevuto. In secondo luogo, è il riconoscimento che noi non meritiamo quel beneficio. E, in terzo luogo, è il desiderio di dedicarci a chi ci ha fatto il servizio in proporzione al servizio prestato e, più ancora, della dedizione dimostrata in relazione a noi. Come diceva Santa Teresina, ‘amore solo con amore si paga’. O la persona paga dedizione con dedizione o non ha pagato. […] In questa prospettiva, la gratitudine delle nostre anime al beneficio che la Madonna ci ha fatto, consentendo alla morte del suo Divino Figlio e accettando i dolori che ha sofferto affinché fossimo riscattati, […] deve esser immensa e deve portarci a volerLa servire con una dedizione analoga”.10

  Ora, oltre a darci la vita umana, Dio ci concede l’inestimabile tesoro della partecipazione alla sua vita divina col Battesimo e, più ancora, ci dà costantemente la possibilità di recuperare questo stato quando viene perduto col peccato, bastando per questo il nostro pentimento e la confessione sacramentale. Soprattutto Si dà Se stesso in Corpo, Sangue, Anima e Divinità come alimento spirituale per trasformarci in Lui, santificandoci in maniera da garantirci una resurrezione gloriosa e la vita eterna. Egli ci ha lasciato sua Madre come Mediatrice, a occuparsi del genero umano con tutto l’affetto e premura. I benefici che Dio ci concede sono, così, incommensurabili! Quale non deve essere, dunque, la nostra gratitudine verso Nostro Signore e sua Madre Santissima? Abbracciare con entusiasmo e abnegazione la santità e combattere con sempre crescente dedizione per l’espansione della gloria di Dio e della Vergine Santissima sulla Terra, ecco il miglior mezzo di corrispondere all’infinito amore del Sacro Cuore di Gesù, che è versato su di noi a fiumi, dal nascere del sole fino al suo occaso.

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1) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. I, q.90, a.3; a.4, ad 1.
2) COLUNGA, OP, Alberto; GARCIA CORDERO, OP, Maximiliano. Biblia comentada. Pentateuco. Madrid: BAC, 1960, t.I, p.688.
3) Cfr. LAGRANGE, OP, Marie-Joseph. Évangile selon Saint Marc. 5.ed. Paris: J. Gabalda, 1929, p.29.
4) COLUNGA; GARCIA CORDERO, op. cit., p.685.
5) Cfr. SANT’AGOSTINO. De Civitate Dei. L.XIV, c.11, n.1 In: Obras. Madrid: BAC, 1958, v.XVI-XVII, p.951.
6) MALDONADO, SJ, Juan de. Comentarios a los Cuatro Evangelios. Evangelios de San Marcos y San Lucas. Madrid: BAC, 1951, v.II. p.728.
7) SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., II-II, q.107, a.2.
8) TITO BOSTRENSE, apud SAN TOMMASO D’AQUINO. Catena Aurea. In Lucam, c.XVII, v.11-19.
9) CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Conferenza. São Paulo, 1 giu. 1974.
10) Idem, 27 dic. 1974.