Vangelo
In quel tempo, 2 Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3 e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla Terra potrebbe renderle così bianche. 4 E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5 Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per Te, una per Mosè e una per Elia!” 6 Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7 Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltateLo!” 8 E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. 9 Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’Uomo fosse risorto dai morti. 10 Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti (Mc 9, 2-10).
“AscoltateLo!”
Gli Apostoli, irrigiditi in una falsa concezione riguardo la missione di Gesù, non prestarono ascolto alla sua voce. Siamo dunque vigili affinché non ci accada mai lo stesso.
I – Dio non risparmiò il suo stesso Figlio
Già ai primi passi della Quaresima, periodo dedicato alla penitenza, ci sorprende il tenore delle letture della 2a Domenica. Dopo una settimana centrata sulla chiamata alla conversione e sulla lotta contro le tentazioni, siamo invitati a contemplare la Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo, momento di gloria e splendore. Perché questo cambio di impostazione? Considerando tale mistero, la Chiesa si propone di farci riflettere su ciò che sta dietro alle apparenze della vita, le quali, in verità, costituiscono una piccola parte della realtà, e non la realtà intera, assoluta, che si nasconde ai sensi! Intenderemo meglio questo principio, analizzando i differenti testi della Liturgia del giorno, alla luce di questo singolare avvenimento: la Trasfigurazione.1
Alla radice della promessa, Dio esige abnegazione
Nella prima lettura (Gen 22, 1-2.9a.10-13.15-18) incontriamo un fatto dei primordi del popolo eletto, che contrassegna la Storia della salvezza. Abramo era un arameo ormai anziano, come anche la sua sposa Sara, che non aveva avuto figli. Ciò nonostante, Dio gli aveva promesso che avrebbe dato origine a una vasta discendenza, più numerosa delle stelle del cielo (cfr. Gen 15, 5), un’autentica nazione (cfr. Gen 12, 2). Ora, questo non sarebbe stato un popolo comune, poiché da lui sarebbe dovuto nascere il Redentore, Gesù Cristo. Più avanti il Signore avrebbe annunciato che Sara avrebbe dato alla luce un figlio (cfr. Gen 17, 16). Abramo credette e gli nacque Isacco, malgrado la sua età avanzata. Questo figlio – incantevole, intelligente e intuitivo, come si deduce dal racconto biblico – crebbe attorniato dall’affetto e dall’ammirazione piena di un padre che, tempo prima, già non contava più di avere un erede.
Ad un certo punto, Dio volle sottoporre Abramo a una prova, perché in cambio di ogni dono o privilegio che Lui concede deve esserci sacrificio e abnegazione. E quanto maggiore il dono, maggiore la donazione richiesta alla creatura. Per essere all’altezza di una così elevata chiamata e avere il premio, la luce e la gloria di essere un antenato del Messia, di un Uomo che è anche Dio, era necessario che Abramo fosse messo alla prova e dimostrasse totale flessibilità ai disegni della Provvidenza. Senza questo merito non ci sarebbe stata una base sufficiente per una vocazione di tale grandezza.
Una scena pungente contrassegnata dalla sofferenza assiologica
Quando Isacco raggiunge, probabilmente, l’età di nove anni, Dio esige che Abramo lo consegni in olocausto. Il patriarca aveva un vero apprezzamento per il bambino, perché era suo successore, il figlio della benedizione, venuta dalle mani del Signore. Tuttavia, Egli ora lo chiedeva indietro. Se oggi noi sappiamo che non conviene che i medici operino i loro figli, perché mancano, normalmente, di stabilità emotiva per questo, come possiamo aspettarci che un padre abbia la forza di sacrificare colui che è carne della sua carne? Abramo, però, non ebbe tentennamenti, e agì senza il minimo timore di fare la volontà di Dio.
La Genesi non racconta quali furono le afflizioni interiori di Abramo, le sue perplessità e i problemi assiologici di fronte a tale situazione, ma è evidente che sentì un dolore più profondo che se lui stesso si fosse offerto come vittima, e suo figlio Isacco lo pugnalasse e lo gettasse alle fiamme di un rogo per essere consumato. Come fidarsi della promessa fatta da Dio, mentre rinunciava al figlio unico? Che fosse il Signore scontento di lui – poiché, in fin dei conti, ogni uomo concepito nel peccato originale ha le sue imperfezioni – per questo gli strappava l’erede? Che avesse commesso qualche mancanza senza saperlo? Che tormenti inenarrabili lo avranno assalito salendo sul monte! È probabile che non li abbia rivelati a nessuno, custodendo in cuor suo questo terribile dramma passato tra lui e Dio.
Abramo invitò Isacco a salire insieme sulla collina e immolare una vittima, portando con sé tutti gli elementi necessari: la legna, il fuoco e due servi perché li aiutassero (cfr. Gen 22, 3). Ora, il piccolo, già nell’età dei perché e con l’intelligenza tutta fatta di logica così comune agli ebrei, non intese quello che sarebbe accaduto e chiese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” (Gen 22, 7). Il padre, che era solito risolvere amorosamente i dubbi di Isacco in tutte le circostanze, cercando di approfittare di qualsiasi occasione per trasmettergli le sue conoscenze, fu obbligato a rispondere: “Dio stesso provvederà” (Gen 22, 8). Mentre avanzavano, lui intratteneva il bambino, ma il cuore palpitava di angoscia. È presumibile che Abramo avrebbe preferito morire per strada, prima ancora di raggiungere i piedi della montagna e, tuttavia, sentiva che Dio gli dava energia per proseguire. Giunto al luogo indicato da Dio, preparò la legna, e può darsi che Isacco abbia pregato per la vittima un’ultima volta. Infine, Abramo lo legò e lo pose sopra l’altare. Isacco, che aveva ereditato il temperamento del padre e da lui aveva ricevuto la fede, capì subito tutto, e non disse una parola, consegnandosi con totale obbedienza e flessibilità. Scena struggente! Abramo è disposto a macchiare le sue mani con il sangue di quell’unico discendente, che era un dono del Cielo e la promessa del suo futuro.
Dio non permise, tuttavia, che il bambino fosse ucciso, perché non aveva bisogno di questa offerta. Egli voleva, questo sì, il sacrificio dell’intera conformità di Abramo alla sua volontà, della generosità piena per quanto sconcertanti fossero le apparenze, e, allo stesso tempo, la sottomissione di Isacco a lasciarsi immolare senza per nulla lamentarsi. Quando Abramo alzò il pugnale con tutta la fede, pronto a piantarlo su Isacco, una voce angelica si fece sentire: “Abramo, Abramo! […] Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” (Gen 22, 11-12). Era l’ordine che egli anelava per evitare il momento tragico dell’esecuzione. Ciò nonostante, come l’uomo è condannato per le sue intenzioni – se lui architetta un crimine, per esempio, e non riesce a eseguirlo per ragioni circostanziali, pecca nel suo intimo –, così Abramo “è stato giustificato per le opere” (Rm 4, 2). Infatti, non solo egli accettò quello che Dio aveva deciso, ma anche prese tutti i provvedimenti affinché il sacrificio di Isacco si consumasse. Come ricompensa, ricevette indietro il figlio dal quale già si era staccato, in una grande gioia, rendendo grazie a Dio.
Dio, che salvò Isacco, immolò il proprio Figlio
“Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio” (Gen 22, 13). In questo episodio troviamo un indizio del futuro riscatto dei primogeniti prescritto dalla legge mosaica dopo la partenza dall’Egitto (cfr. Es 13, 13; 34, 19-20), quando il sangue dell’agnello senza difetto, sugli stipiti e sulle architravi delle porte, preservò dall’Angelo sterminatore i primogeniti del popolo eletto (cfr. Es 12, 5-13). Quell’animale era, in realtà, un simbolo dell’Agnello vero, l’Agnello di Dio, poiché il Signore, che perdona la vita del figlio di Abramo, non risparmia quella del suo stesso Figlio, né Lo esime dal più ignominioso dei supplizi, cioè, la morte in Croce, al fine di manifestare il suo amore per noi. Sì, quanto è accaduto ad Abramo non è successo sul Calvario, dove Dio – come dice l’Apostolo, nella seconda lettura (Rm 8, 31b-34) – “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Rm 8, 32). Sul Golgota vediamo il Figlio unico di Dio coronato di spine, flagellato, disprezzato e oltraggiato dal comportamento immondo dei carnefici, che sputarono su di Lui. Cristo era una piaga dalla testa ai piedi, al punto che le sue ossa si potevano contare (cfr. Sal 21, 18). Giunta l’ora della Crocifissione, dopo la Via Crucis, in cui cadde tre volte sotto il peso della Croce, l’Unigenito di Dio morì! Fu annientato per causa nostra, poiché desiderava che fossimo salvi: “Io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33, 11).
Che disegni esisteranno dietro a questo? Perché Dio sottopose Abramo a questa prova e permise che suo Figlio fosse immolato? Consideriamo un principio infallibile: essendo Dio il Bene in essenza, non può peccare,2 e ogni volta che agisce, ha in vista un beneficio. Se Egli sottopose alla prova il patriarca e fece passare suo Figlio per gli orrori della Passione, fu perché volle il bene. Non avrebbe dovuto il Padre cercare il massimo per Colui di cui afferma nel Vangelo: “Questo è il mio Figlio prediletto”? Ma come comprendere che la Croce è qualcosa di eccellente? Come accettare che il martirio di un Figlio significhi per Lui quanto c’è di meglio? La nostra ragione umana, se non è aiutata dalla grazia di Dio e dalla fede, non riesce a percepire tale bellezza.
Ecco il motivo per il quale la Chiesa medita, in piena Quaresima, sulla Trasfigurazione del Signore: essa vuole collocarci in una nuova impostazione, poiché come il Redentore Si è trasfigurato per dar forza agli Apostoli e portarli ad ammettere che era Dio e avrebbe continuato a esserlo, anche morto e crocifisso, anche noi dobbiamo apprendere che la sofferenza e la croce, per quanto nera si presenti, contiene in fondo un sorriso divino e una sorta di resurrezione, un fulgore e una gloria.
II – Una difettosa visualizzazione del Salvatore
La Trasfigurazione del Signore avvenne in un’occasione di fondamentale importanza. Narra il Vangelo di San Matteo che questo mistero avvenne sei giorni dopo la confessione di Pietro (cfr. Mt 17, 1), la quale aveva manifestato agli Apostoli che Nostro Signore era Dio e Uomo vero (cfr. Mt 16, 16). In conseguenza dell’unione tra la natura divina e la natura umana realizzata nella Seconda Persona della Santissima Trinità, Gesù è interamente Uomo – e, in quanto tale, sentiva fame, sete e gli effetti di altre contingenze –, ma tutto in Lui è adorabile, perché Lui è Dio. Con un apparente paradosso in relazione al riconoscimento della sua divinità, Cristo aveva predetto in termini chiarissimi la futura Passione (cfr. Mt 16, 21), annuncio che i Dodici non avevano assimilato, poiché essi ancora alimentavano ogni specie di illusioni riguardo alla conquista del potere temporale in Israele. Devono aver commentato abbondantemente, nel corso di quei giorni, su una presunta vittoria di portata straordinaria, la cui massima espressione sarebbe stata la vittoria politica, sociale e finanziaria. Successi che gli uomini di tutte le epoche sognano e per i quali, non raramente, si lasciano inebriare, sebbene costituiscano appena il resto che verrà concesso a condizione che si cerchi l’essenziale, secondo l’insegnamento di Nostro Signore: “Cercate piuttosto il Regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12, 31). I discepoli, tuttavia, non avevano imparato questa lezione, malgrado tutta la dottrina allora ricevuta dal Divino Maestro, e continuavano a essere in attesa di un regno terreno in cui tutto sarebbe stato meraviglioso, poiché, alla fine, cosa non aspettarsi da un Dio fatto Uomo, che domina sulla natura? Gesù era Colui che aveva una soluzione per tutto, pertanto, la felicità eterna si sarebbe stabilita sulla Terra! Per questo la tendenza degli Apostoli, contrariamente a quello che Nostro Signore aveva loro comunicato, era ritenere che la fase della sofferenza fosse conclusa… Illusione! Perché è solo con la croce che si giunge alla luce: “Per crucem ad lucem!”.
Scelti per sostenere la fede degli altri
In quel tempo, 2 Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro…
Gesù scelse tre Apostoli particolarmente amati per presenziare la Trasfigurazione, affinché, più tardi, fossero questi i testimoni della sua divinità. Quando Lo avessero contemplato mentre pregava e sudava Sangue nell’Orto degli Ulivi, e dopo mentre affrontava le terribili vicissitudini della sua Passione e Morte, era necessario conservassero nella memoria questa esperienza mistica, per non perdere la fede. Con tale sostegno, nemmeno una realtà così drammatica quanto quella del Getsemani avrebbe potuto offuscare la certezza piena acquisita sul Tabor – dove Lui aveva mostrato loro la sua vera figura –, mediante la quale avrebbero compreso chi, di fatto, stava soffrendo: Dio stesso. Così, Nostro Signore desiderava garantire agli Apostoli che tutti gli avvenimenti futuri sarebbero stati per la sua gloria.
Gloriosa manifestazione
3 …e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla Terra potrebbe renderle così bianche.
Da questo versetto si deduce che, già allora c’erano persone specializzate a lavare alla perfezione le vesti. Ma l’Evangelista dichiara che in nessuna parte della Terra – il che, in modo profetico, comprende tutta la Storia – qualcuno sarebbe capace di far diventare una veste così bianca quanto quelle sue. La trasformazione dell’apparenza delle vesti è segno evidente che Nostro Signore, come dice San Tommaso,3 manifestò nella sua esteriorità la gloria della sua Anima, facendo splendere per alcuni istanti la chiarezza, caratteristica dei corpi gloriosi. Dato che l’anima è la forma del corpo, la gloria di quella trabocca anche nella gloria di questo. Ora, se in virtù dell’unione ipostatica l’Anima di Nostro Signore fu creata nella visione beatifica, sarebbe naturale che il suo Corpo godesse di uguale perfezione. Tuttavia, Cristo sospese per Sé questa legge, da Lui stesso stabilita, assumendo un corpo sofferente al fine di operare la Redenzione. Malgrado ciò, troviamo nel corso della sua vita una serie di circostanze in cui Lui ebbe, in maniera miracolosa, determinate proprietà del corpo glorioso: la sottilezza, nascendo, passando dal chiostro interiore della Madonna alle Sue braccia, senza ferirLa né causarLe danno alcuno; l’impassibilità, quando vollero lapidarLo e ucciderLo a Nazaret, uscendone illeso (cfr. Lc 4, 29-30); l’agilità, quando camminò sopra le acque (cfr. Mt 14, 25); la chiarezza, come abbiamo visto, nella scena della Trasfigurazione, in cui il biancore delle vesti, dava “una bella idea della gloria che ci è promessa. Quanta lucentezza ha, visto che offusca anche il Sole stesso! E quanto abbondante è, poiché avendo riempito tutto il Corpo, attraversa anche le vesti!”.4
I rappresentanti della profezia e della Legge rendono omaggio a Gesù
4 E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Secondo la Legge di Mosè, sarebbero sufficienti due testimoni per avere certezza giudiziaria (cfr. Dt 17, 6; 19, 15). Così, in questo fatto straordinario, Nostro Signore Si fece accompagnare da Elia e Mosè. Al primo, in quanto simbolo ed esponente massimo del filone di profeti dell’Antico Testamento, toccava testimoniare che Lui era Dio, la Seconda Persona della Santissima Trinità Incarnata. Già la presenza di Mosè dava ad intendere che la legislazione da lui promulgata fosse stata, in verità, ispirata dal Verbo. Il Redentore non veniva, pertanto, contro la Legge né contro i profeti, ma era la realizzazione di tutti gli oracoli e il compimento finale e perfezionato dell’Antica Legge.
Stupore di fronte alla magnificenza della grazia ricevuta
5 Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per Te, una per Mosè e una per Elia!” 6 Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
La scena fu a tal punto grandiosa che San Pietro rimase stupefatto. È frequente che gli autori traducano la richiesta di alzare tre capanne come un desiderio di prolungare indefinitamente quella meraviglia. In un certo senso l’osservazione può essere valida, però il testo evangelico è chiaro nel riferire che lui ebbe paura e non sapeva cosa dire. Siccome era molto comunicativo, si vide spinto a fare un commento. Pare, dunque, più appropriato ammettere che Pietro fosse stordito perché aveva visto la Parola, senza riuscire a interpretarLa; ma subito vennero dall’alto i lumi necessari per questo.
Il Padre ama totalmente il Figlio
7 Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltateLo!”
Quando amiamo una determinata creatura, siamo attratti dal bene che in lei esiste. Se ci piace, per esempio, un panorama, è perché vediamo la bellezza e il bene in esso posti da Dio. Questa perfezione è precedente al movimento della nostra volontà, che vola verso quella forma di bellezza. Tuttavia, con Dio succede l’opposto. Il Suo amore fa sì che il bene penetri in quello che ama, promuovendo la bontà degli esseri. Ora, questa carità – che in Lui è infinita – si esaurì nel suo Figlio Unigenito, in cui pose tutta la sua compiacenza, come dirà un altro Evangelista (cfr. Mt 17, 5). Dio Lo amò oltremodo, perché era il suo unico Figlio.
Noi, semplici creature, siamo amati dal Creatore e riceviamo l’infusione della sua bontà, ma non corrispondiamo mai all’altezza di questi doni, ossia, stiamo sempre al di sotto di quello che dovremmo dare. A dispetto di ciò, Egli ci ama ancora. E quanto più ci amerebbe se la nostra restituzione fosse maggiore! Nostro Signore Gesù Cristo, al contrario, diede assolutamente tutto quello che era possibile, in ogni istante, in ricompensa al Padre, risvegliando con questo un amore tutto speciale, ragione delle parole: “Questi è il Figlio mio, l’amato”. In conseguenza di questo amore, Gesù è Colui che riassume e riunisce in Sé tutto quello che è uscito dalle mani divine. E sulla Croce, riparando completamente l’ordine della creazione, Egli conquistò, in quanto Uomo, il titolo di Re, Salvatore e Redentore nostro, che già possedeva per essere Dio, come ricorda San Cirillo di Alessandria: “Essendo Dio da tutta l’eternità, ascende dalla nostra limitata condizione fino alla gloria eccellente della divinità”.5 E così il Padre Gli dà ogni lode e onore. Insomma, Egli ha voluto per Cristo i tormenti della Passione perché desiderava elevarLo alla pienezza della gloria.
La sofferenza è qualcosa di passeggero
8 E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. 9 Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’Uomo fosse risorto dai morti. 10 Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Secondo San Matteo, gli Apostoli caddero con la faccia a terra dopo aver udito la voce del Padre (cfr. Mt 17, 6). Quale non sarà stata la potenza di questa voce? Con che impeto essa non sarà penetrata fino alle ossa? Tutto in quella manifestazione avveniva affinché gli Apostoli ritenessero il Maestro come un essere divino e acquisissero la coscienza che era doveroso ascoltarLo, anche se, subito dopo, Egli avesse annunciato che sarebbe morto e risorto il terzo giorno. Ma Nostro Signore voleva, soprattutto, mostrare che le pene del Calvario sarebbero state passeggere.
Nell’episodio della Trasfigurazione Egli mette in chiaro che, se eliminare la sofferenza è impossibile, è anche certo che Dio non esige mai qualcosa al di sopra delle nostre forze: “Deus qui ponit pondus, supponit manum – Dio che colloca il peso, mette la mano sotto”, dice il proverbio. Il dolore esiste tanto nella via della santità quanto in quella del peccato; nella prima è sempre più soave e, alla fine, ogni sofferenza ben sopportata sfocia in trionfo, come ricorda Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: “È necessario soffrire; tutti dobbiamo soffrire. Tutti, sia i giusti che i peccatori, devono portare la croce. Chi la porta pazientemente si salva, e chi la porta impazientemente si condanna. […] Chi si umilia nelle tribolazioni e si rassegna alla volontà di Dio è grano del Paradiso, e chi si insuperbisce e si irrita, abbandonando Dio, è paglia per l’inferno”.6 Tanto grande è la gloria che ci attende nell’eternità, nel giubilo della visione beatifica, che essa giustifica tutti i patimenti che possano sopravvenirci. Utilizzando le parole dell’Apostolo: “Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8, 18).
Questo Vangelo ci aiuta a focalizzare bene il problema della sofferenza. Quando si abbatte su di noi un dramma o un fallimento che non comprendiamo, sia questo per noi causa di giubilo, perché indica che portiamo nell’anima il segno dei predestinati: “Come Dio ha trattato suo Figlio prediletto, così tratterà anche chi ama e adotta come figlio”.7 Dilemmi, disillusioni, incomprensioni, malattie, disaccordi familiari, difficoltà finanziarie o disastri sono permessi dalla Provvidenza per il nostro bene. Per questo lo stesso San Paolo chiede, nella seconda lettura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8, 31b-32). “Ogni cosa” include anche il dolore. Riempiamoci, dunque, di gioia, perché ci avvieremo nel corso di questa Quaresima, passo dopo passo, verso la Crocifissione di Nostro Signore Gesù Cristo. Fiduciosi che la Provvidenza non smette mai di proteggerci, abbandoniamoci interamente nelle sue mani – come Abramo e lo stesso Uomo-Dio –, affinché Ella faccia di noi quello che vorrà.
III – Offriamo in olocausto quello che ci allontana da Dio!
In considerazione dell’insegnamento di questa Liturgia, non possiamo dimenticare che l’amore manifestato dal Padre per noi nella mactatio – immolazione – di suo Figlio merita reciprocità. Dio si attende da ciascuno di noi questo sacrificio: distacco da quello che ci distoglie dal cammino giusto, o da qualsiasi attaccamento che leghi il nostro cuore a qualcosa che non sia Lui, e docilità per quanto riguarda la sua volontà. Una volta che ci ha chiamati alla santità, Egli ci vuole interamente e desidera che stiamo costantemente con il coltello alzato come Abramo. Se Abramo fu disposto a consegnare Isacco, come non saremo noi pronti a offrire quello che costituisce un ostacolo alla salvezza e al nostro rapporto perfetto col Signore? Di quanto profitto sarebbe fare per noi stessi un proposito ardente di porre sopra la legna ognuno dei nostri capricci, su di essi far scendere il coltello e, in seguito, dar loro fuoco, immolandoli in olocausto a Dio! In questo modo, come Abramo, ci renderemmo liberi da qualsiasi apprezzamento disordinato per le creature.
Si è soliti ascoltare elogi alla fede del santo patriarca, che realmente è degna di ogni lode; ma probabilmente più bella ancora è la sua obbedienza, riflessa in quella del figlio Isacco. “L’obbedienza” – afferma Sant’Ignazio di Loyola – “è un olocausto, nel quale l’uomo intero, senza dividere nulla da sé, si offre nel fuoco della carità al suo Creatore e Signore […]; è una rassegnazione intera di se stessi, con la quale ci si spoglia completamente di sé, per essere posseduti e governati dalla Divina Provvidenza”.8 L’obbedienza praticata con tale radicalità ci ottiene la realizzazione delle promesse, perché Dio assicura ad Abramo: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce” (Gen 22, 16-18). Che consolazione sarebbe poter udire la voce di Dio che ci dice: “Visto che hai rifiutato tutte le tue affezioni, le hai bruciate e le hai messe su un altare in sacrificio, Io ti benedirò, perché tu Mi hai obbedito”. Delle virtù l’obbedienza è quella che più piace a Dio; non quella che si basa su l’esteriorità, ma, quella che nasce nel fondo del cuore, come è stata quella di Abramo: questa è l’obbedienza autentica.
Ancora una volta, nella seconda lettura, San Paolo ci incoraggia ad assumere questo atteggiamento, per aver un intercessore nel Cielo: “Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risorto, sta alla destra di Dio” (Rm 8, 34). Abramo non contava su Nostro Signore presso il Padre per chiedere per lui, e neppure poteva contare sulla Madonna. Quanto a noi, in una situazione di gran lunga superiore a quella del patriarca, abbiamo l’intercessione di un Avvocato assoluto e di una Mediatrice di impetrazione onnipotente, cosa che ci riempie di fiducia. Non dimentichiamoci, tuttavia, che “noblesse oblige – la nobiltà obbliga”. Dotati di tanti privilegi, dobbiamo corrispondere più di lui.
Nel Vangelo, la voce del Padre ci esorta: “Ascoltatelo!”. Ricordiamoci, allora, di quello che Nostro Signore ha insegnato: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9, 23). Questa croce non è pesante, ma, al contrario, allevia i pesi della nostra coscienza. Essa significa obbedire alla volontà di Dio. La 2a Domenica di Quaresima ci stimola a tenere davanti agli occhi quello che alimenta la nostra fede, aumenta la nostra capacità di soffrire e ci offre gioia in mezzo a tutti i tormenti.
1) Per altri commenti su questo tema, si veda: CLÁ DIAS, EP, João Scognamiglio. Como será a felicidade eterna? In: Arautos do Evangelho. São Paulo. N.74 (Feb., 2008); p.10-17; Commenti al Vangelo della II Domenica di Quaresima – Anni A e C, rispettivamente nei Volumi I e V di questa collezione; A Transfiguração do Senhor e nossa santificação. In: Arautos do Evangelho. São Paulo. N.8 (Ago., 2002); p.5-10; Commenti al Vangelo della Festa della Trasfigurazione del Signore – Anni A, B e C, nel Volume VII, sempre di questa collezione.
2) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. I, q.25, a.3, ad 2.
3) Cfr. Idem, III, q.45, a.2; a.1, ad 3; q.28, a.2, ad 3.
4) BOSSUET, Jacques-Bénigne. Ier Sermon pour le II Dimanche de Carême. In: Œuvres choisies. Versailles: Lebel, 1822, v.VI, p.283.
5) SAN CIRILLO DI ALESSANDRIA. ¿Por qué Cristo es uno? 2.ed. Madrid: Ciudad Nueva, 1998, p.135.
6) SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI. Práctica del amor a Jesucristo. In: Obras Ascéticas. Madrid: BAC, 1952, t.I, p.365.
7) Idem, ibidem.
8) SANT’IGNAZIO DI LOYOLA. Carta 83. A los Padres y Hermanos de Portugal. In: Obras Completas. Madrid: BAC, 1952, p.838.
Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” da Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.
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