Nostro Signore insegna agli Apostoli

Vangelo

 In quel tempo, disse Gesù ai suoi Apostoli: 37 “Chi ama il padre o la madre più di Me non è degno di Me; chi ama il figlio o la figlia più di Me non è degno di Me; 38 chi non prende la sua croce e non Mi segue, non è degno di Me. 39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. 40 Chi accoglie voi accoglie Me, e chi accoglie Me accoglie Colui che Mi ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità Io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10, 37-42).

Innestati in Cristo

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

Viviamo innestati in Cristo o nel mondo? Dove
troveremo la pace dell’anima e come potremo compiere il
fine soprannaturale per il quale siamo stati creati?

I – Il Battesimo ci innesta in Gesù Cristo

Meraviglioso riflesso del Creatore, la natura materiale presenta sorprendenti e variegate lezioni di vita. Una di esse si osserva nella pratica comune dell’innesto di alberi da frutto in altri dello stesso genere più resistenti, con l’obiettivo di migliorare la qualità dei frutti o di rendere possibile la loro crescita in un ambiente ostile. Con questo curioso processo le due piante associate formano un’unità, che nutre il vegetale più debole con la linfa di quello più robusto.

Questo fenomeno botanico è un’immagine didattica di una realtà molto più ricca nel campo spirituale. Infatti, col Battesimo siamo come innestati in Gesù Cristo e passiamo a vivere della Sua linfa, potendo, così, dar frutti che non corrispondono alla nostra capacità, ma sono soprannaturali, come disse Nostro Signore agli Apostoli: “Io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16).

Questa nota immagine dell’innesto ci aiuterà a intendere meglio l’altissimo principio contenuto nella Liturgia della 13ª Domenica del Tempo Ordinario.

II – La vera vita ci viene solo dalla linfa divina

Prima di fare gli ammonimenti trascritti nel passo del Vangelo selezionato per questa domenica, Nostro Signore aveva già esposto buona parte della sua dottrina e aveva realizzato molti miracoli per comprovare la veracità del suo insegnamento e la sua origine divina, lasciando le moltitudini ammirate: “Non si è mai vista una cosa simile in Israele” (Mt 9, 33). E dopo inviò i Dodici Apostoli a predicare, conferendo loro il potere di guarire malattie e scacciare demoni (cfr. Mt 10, 5-8; Mc 6, 7-13; Lc 9, 1-2).

Ora il Divino Maestro cerca di mostrare la profondità richiesta nell’adesione a Lui e alcune delle sue conseguenze pratiche.

Il legittimo amore familiare deve avere Cristo al centro

In quel tempo, disse Gesù ai suoi Apostoli: 37 “Chi ama il padre o
la madre più di Me non è degno di Me; chi ama il figlio o la figlia
più di Me non è degno di Me;…”

Per ben valutare la portata di quest’affermazione di Gesù, è utile ricordare il suo contesto. Aveva appena annunciato di non essere venuto a portare la pace, ma la spada, l’opposizione tra il figlio e suo padre, la figlia e sua madre, la nuora e la suocera, aggiungendo anche che i nemici sarebbero stati gli stessi familiari (cfr. Mt 10, 34-36). Ossia, davanti a Lui il mondo si dividerà sempre: gli uni a favore, gli altri contro, perfino in una stessa casa, come, purtroppo, si può constatare con frequenza al giorno d’oggi.

E per porre l’accento su quanto l’amore a Dio deve primeggiare su tutto, il Divino Maestro ricorre all’esempio di ciò che c’era di più penetrante, profondo e vigoroso nell’ambito dell’affetto umano in quella società: la relazione familiare. I figli avevano una vera venerazione per i padri, ed era rarissimo che un figlio si rivoltasse contro l’autorità paterna. Si può misurare la gravità di questa colpa col castigo imposto al figlio ribelle che non si correggesse: la morte per lapidazione (cfr. Dt 21, 18-21).

Mosè con le Tavole della Legge

Come si armonizza l’amore a Dio con l’amore ai familiari

Che abbia voluto per caso Nostro Signore, con le parole di questo versetto, screditare l’istituzione della famiglia? Ipotesi assurda, visto che il Quarto Comandamento della Legge di Dio obbliga a onorare il padre e la madre, dando un carattere religioso al rapporto tra figli e genitori. Tuttavia, conviene ricordare la categorica prescrizione del Primo Comandamento: si deve amare Dio sopra ogni cosa – dunque, più dei nostri intimi –, poiché tutto è di Dio e a Lui deve esser restituito.

Nonostante l’apparente contraddizione, entrambi i precetti si armonizzano, rispettata la debita gerarchia, come insegna Sant’Agostino: “Ti insegna Cristo a disdegnare i tuoi genitori e ad amare i tuoi genitori, perché allora li ami in forma ordinata e pietosa, non anteponendoli a Dio. Ecco le parole del Signore: ‘Chi ama suo padre o sua madre più di Me, non è degno di Me’. Con queste parole, pare incentivarti a non amarli; però, fa’ attenzione, Egli ti esorta ad amarli. Potrebbe aver detto: ‘Chi ama suo padre o sua madre non è degno di Me’. […] Non promulga, pertanto, una legge contraria, e raccomanda l’Antica; ti indica l’ordine, senza toglierti la pietà, dicendo: […] ‘Amali, dunque, ma non più di Me’. Dio è Dio e l’uomo è uomo. Ama i genitori, rispettali, onorali, ma se Dio ti chiama a un’impresa più alta, davanti alla quale i genitori possano essere un ostacolo, conserva l’ordine, non contravvenire alla carità”.1

Nostro Signore vuole la famiglia ben costituita, ossia, ordinata in funzione dell’alto. Di conseguenza, l’amore del figlio o della figlia al padre o alla madre, e viceversa, deve esser subordinato e condizionato all’amore a Dio.

San Pietro Giuliano Eymard

È necessario combattere gli affetti familiari disordinati

Ora, non raramente i più prossimi sono i maggiori oppositori alle vocazioni religiose, come dimostra il celebre episodio della vita di San Francesco di Assisi in cui suo padre, non accettando le generose elemosine date dal figlio, lo diseredò. “Quanti martiri nel focolare domestico!” – esclama San Pietro Giuliano Eymard. “L’amore sovrano di Gesù Cristo rivelerà un giorno – nel grande giorno – virtù sublimi che hanno avuto per testimoni solo coloro che avrebbero dovuto essere per loro il rifugio e non i carnefici”.2

In senso contrario, l’agiografia registra meravigliosi esempi di genitori che primeggiarono per l’educazione dei figli nel timor di Dio e stimolarono la loro consegna a Lui, come i Beati Luigi e Zelia Martin: le loro cinque figlie, tra cui Santa Teresa di Gesù Bambino, si fecero religiose. Oppure Santa Monica, che pianse per molti anni per la conversione del figlio, Sant’Agostino, quando ancora era maestro di retorica di successo. E, in ugual maniera, si può dire che hanno un vero affetto per i genitori solo i figli che amano Dio sopra tutte le cose.

È importante rilevare che la frase “non è degno di Me” non significa solo che Dio respinge chi ama un parente più di Lui. Denota che la stessa persona, per il fatto di non essere innestata in Cristo, ma nella rispettiva famiglia, riceve da questa la linfa – ossia, la mentalità, il modo di essere, la concezione di vita –, e non da Gesù. Dio vuole, pertanto, che il nostro amore per Lui sia esclusivo e prevalga anche sopra i sentimenti più nobili e legittimi. E in questo passo del Vangelo insegna a lasciarci requisire dalla Provvidenza in forma libera e spontanea, prendendo la decisione di aderire a Lui con piena volontà. Questo comporta spesso ardue lotte spirituali contro gli affetti disordinati. E in questa materia nulla è trascurabile, poiché, come una piccola fiamma può provocare un grande incendio, così qualsiasi affezione smisurata a qualcosa o a qualcuno può separarci definitivamente da Dio, perché implica preferire una creatura al Creatore.

Con le parole di questo versetto, il Divino Maestro ammonisce in modo speciale i figli che, avendo una vocazione religiosa, le sovrappongono la considerazione familiare, o ai genitori che impediscono ai figli di seguire questa chiamata: gli uni e gli altri si rendono indegni di Cristo!

Di questo fu modello il Bambino Gesù nel Tempio quando, alla domanda di sua Madre virginale – “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e Io, angosciati, ti cercavamo!” (Lc 2, 48) –, Egli rispose: “Perché Mi cercavate? Non sapevate che Io devo occuparMi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 49). E, ancora, quando disse nel mezzo di una predicazione: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3, 35). È inutile ricordare che l’amore di Gesù a Maria Santissima e a San Giuseppe era il più perfetto possibile.

La croce di affrontare l’opinione dei più prossimi

38 “…chi non prende la sua croce e non Mi segue, non è degno di Me”.

Questa è la prima allusione di Nostro Signore, nei Vangeli sinottici, al modo in cui avrebbe patito e sarebbe morto, ma anche alle sofferenze morali cui tutti sono soggetti, tante volte più atroci di quelle fisiche. In questo senso, ciò che più ferì il Divino Redentore non furono i chiodi che Gli trafissero le mani e i piedi sacrosanti, ma l’esser stato rifiutato dal popolo che era venuto a salvare.

Se non vinciamo la tendenza a stare in armonia con le nostre cerchie sociali, il nostro cambiamento di vita non sarà effettivo. Soltanto chi si stacca dall’opinione del mondo riesce adabbandonare abitudini peccaminose – costumi, modo di esser , di pensare e persino di parlare – e assumere un nuovo modo di vivere (cfr. At 5, 20), secondo lo spirito del Vangelo. E frenare dentro di sé questo desiderio di approvazione da parte degli altri, come pure lottare contro i propri capricci e le proprie macchie, costituisce una delle maggiori dilacerazioni per l’uomo, perché significa la vittoria su se stesso, vittoria possibile solo a chi è innestato nella gloriosa Croce di Cristo, l’albero della vita. Come ammonisce Sant’Ilario di Poitiers, “coloro che hanno crocifisso il corpo, e con lui i loro vizi e concupiscenze, questi sono di Cristo (cfr. Gal 5, 24); ed è indegno di Cristo chi non Lo segue dopo aver preso la sua Croce, per la quale soffriamo, moriamo, siamo sepolti e resuscitiamo con Lui, per vivere con un nuovo spirito in questo mistero della Fede”.3

Due vite contrapposte

39 “Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la
sua vita per causa mia, la troverà”.

Trattandosi di due vite distinte, quella dell’anima e quella del corpo, quest’antagonismo presentato da Nostro Signore può confondere un po’ il lettore. Dopo aver parlato dell’esigenza di far prevalere l’amore a Lui sopra qualsiasi legame familiare, e del dovere, se fosse necessario, di piegare il proprio istinto di socievolezza per abbracciare la sua croce, Gesù indica ora un altro istinto che grida dentro di noi: quello di conservazione. Qualsiasi taglietto, qualunque goccia di sangue che cominci a scorrere, qualsiasi malessere
passeggero già ci fa tremare per il bene così pregiato che è la salute…

Per questo, chiarisce San Giovanni Crisostomo: “Considerate qui l’ineffabile sapienza del Signore. Non parla ai suoi discepoli solo dei genitori né solo dei figli, ma di quello che più intimamente ci appartiene, che è la nostra stessa vita”.4 Dunque, il Divino Maestro censura colui la cui preoccupazione per la vita corporale eccede la riverenza e l’amore a Lui, poiché finirà per perdere la vita per eccellenza, cioè, quella soprannaturale, smettendo di essere innestato in Lui. Rapportarsi con Dio, essere suoi figli per stare nella sua grazia, questa è la vera vita e dobbiamo apprezzarla più della nostra esistenza fisica, poiché cadere in peccato grave significa morire per l’eternità.

Nella seconda lettura (Rm 6, 3-4.8-11), San Paolo si esprime bene a questo proposito: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua Morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella Morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6, 3-4). Nei primi tempi del Cristianesimo il sacramento del Battesimo era amministrato per immersione. C’erano battisteri costituiti da una piccola vasca, con gradini su entrambi i lati: il catecumeno – con l’aiuto del sacerdote e del padrino che lo tenevano per mano – scendeva i gradini da un lato fino a giungere in fondo e immergersi tre volte nell’acqua, dopo saliva dall’altro lato, a simbolizzare la morte per il mondo e la resurrezione col Signore Gesù. Infatti, con il Battesimo tutti moriamo per il peccato e siamo innestati nel tronco divino, assorbendo una nuova linfa. Per questo motivo dobbiamo “condurre una vita nuova”, partecipativa alla natura di Dio, e non commettere mai l’ingratitudine di ritornare al vecchio spirito della nostra vita precedente. Solo così riusciremo a “perdere la vita” per il mondo e a conservarla in Cristo Gesù.

Innestati in Cristo… l’apostolato!

40 “Chi accoglie voi accoglie Me, e chi accoglie Me accoglie Colui
che Mi ha mandato”.

Se amiamo il nostro Divino Redentore al di sopra di tutto, assimileremo la sua mentalità e ordineremo l’esistenza in funzione della vita soprannaturale, disponendoci all’apostolato.

Ora, chi coglie un frutto prodotto dal ramo che è stato innestato, accetta la linfa proveniente dall’albero più robusto. In modo analogo, una volta innestati in Cristo, non saremo noi gli accettati o rifiutati quando andremo a evangelizzare, ma Lui, di cui saremo ambasciatori. Il Divino Maestro “ci insegna che ha il compito di mediatore, perché viene da Dio; e, quando Lo riceviamo, Egli ci trasmette Dio. Così, chi riceve gli Apostoli riceve Cristo, e chi riceve Cristo, riceve il Padre”,5 spiega Sant’Ilario.

Innestarsi in un profeta, è anche questo innestarsi in Dio

41 “Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del
profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto”.

La realizzazione della promessa di Gesù, formulata nel versetto di cui sopra, la troviamo illustrata nella prima lettura (II Re 4, 8-11.14- 16a) di questa domenica. Una sunamita ricca, incantata dalla santità di Eliseo, che varie volte aveva accolto nella sua casa, propose al suo sposo: “Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Prepariamogli una piccola camera al piano di sopra, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, sì che, venendo da noi, vi si possa ritirare” (II Re 4, 9-10). Questa signora volle procedere in questo modo per beneficiarsi della presenza di Eliseo. Ossia, volle fare un innesto spirituale con il profeta, ricevendo la sua linfa, il soffio che veniva da Dio. In cambio della sua devota opera, non solo lei ottenne numerose grazie, ma anche il dono di una discendenza: il figlio, che tanto desiderava e non le era stato possibile concepire, le fu promesso entro un anno!

Cos’è, dunque, questo “ricevere” al quale allude Nostro Signore? Ammirare! Chi ha avidità di conoscere la Parola di Dio e di accogliere coloro che la possono trasmettere, riceve il premio di partecipare alle meraviglie divine, di cui il profeta è latore. Allo stesso modo, chi ammira un Santo e ama le sue virtù, s’impregna della sua santità, poiché l’amore è trasformante. Come insegna San Giovanni della Croce, “l’amore rende chi ama simile a chi è amato”. 6 E quanto maggiore è l’affezione, maggiore sarà l’identità o somiglianza. Questo deve essere esattamente l’atteggiamento dell’umanità nei confronti dei profeti e dei Santi. Quando sorge uno di questi uomini provvidenziali, dobbiamo porlo al centro della casa, cioè, della società, in modo che la sua luce illumini i fedeli e faccia fiorire la giustizia e la pietà.

Questo succede anche nel senso del male. Quando apprezziamo qualcuno di malvagio, qualcosa della sua malvagità penetra in noi e persino ci assoggetta, come ammonisce il Santo carmelitano: “Colui che ama una creatura scende al suo stesso livello e, in qualche modo, va ancora più in basso, perché l’amore non solo eguaglia, ma anche sottomette l’amante a chi ama”.7

42 “E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità Io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

III – è necessaria un’unione piena con Cristo

Come abbiamo visto, le letture della Liturgia di questa domenica trattano dell’integrità dell’amore a Nostro Signore Gesù Cristo e ci invitano a essere veri suoi schiavi. Se già lo siamo in quanto creature e peccatori redenti dal suo Sangue, dobbiamo volerlo essere anche come figli amorosi che si danno interamente a Lui, in modo volontario, concreto, esplicito, mossi dalla gratitudine.

L’adesione a Nostro Signore implica la lotta

In questo contesto si comprende meglio l’ammonimento del Divino Maestro, menzionato precedentemente: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla Terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10, 34). Se apparteniamo al mondo, non causiamo sorpresa nelle cerchie sociali e siamo accettati con naturalezza. Tuttavia, a partire dal momento in cui cambiamo di condotta e adeguiamo la vita alla Legge di Dio, passiamo dalla pace alla spada. Si rompe quell’embricatura col nostro ambiente e diventiamo una pietra di scandalo, a somiglianza del Divino Maestro (cfr. Lc 2, 34), poiché l’osservanza delle regole della morale costituisce un costante “non licet tibi – non ti è lecito” (Mt 14, 4), che suscita problemi di coscienza nei peccatori e provoca indignazione. Per questo i buoni non sono tollerati e sono perseguitati, molte volte, persino dai più prossimi.

La pace concepita secondo il mondo significa liberare le passioni. Si fa quello che si vuole, anche se è peccato. Poco importa! Questa è la falsa pace di cui parlava il profeta: “deceperint populum meum dicentes: Pax, et non est pax – ingannano il mio popolo dicendo: Pace! e la pace non c’è” (Ez 13, 10). Al contrario, come insegna Sant’Agostino,8 la vera pace è la tranquillità dell’ordine. Così, la pace dell’anima può venire solo dalla pratica della virtù, che presuppone la lotta alle tentazioni del demonio, del mondo e della carne. Non ci sarà un solo istante in cui le nostre cattive passioni non ci solleciteranno al peccato e all’attaccamento disordinato a tante persone o cose.

In questo modo, ogni uomo ha davanti a sé solo due vie: vivere della linfa divina o della linfa del mondo. Non c’è altra ipotesi. Ecco il grande dilemma di ogni anima e della Storia. Quando, finalmente, l’umanità deciderà di cooperare con la grazia di Dio e comincerà a vivere esclusivamente della linfa divina, si opereranno meraviglie, “come frutto delle grandi resurrezioni dell’anima di cui anche i popoli sono suscettibili. Resurrezioni invincibili, perché non c’è nulla che sconfigga un popolo virtuoso e che ami veramente Dio”.9

1) SANT’AGOSTINO. Sermo LXXII/A, n.4. In: Obras. Madrid: BAC, 
1983, v.X, p.360.

2) SAN PIETRO GIULIANO EYMARD. A Santíssima Eucaristia. 
Festas e Mistérios. Tradução pela nova edição crítica francesa. 
Petrópolis: Vozes, 1955, v.V, p.204.

3) SANT’ILARIO DI POITIERS. Commentarius in Evangelium Matthæi. 
C.X, n.25: ML 9, 977.

4) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO. Omelia XXXV, n.2. In: Obras. 
Homilías sobre el Evangelio de San Mateo (1-45). 2.ed. 
Madrid: BAC, 2007, v.I, p.703.

5) SANT’ILARIO DI POITIERS, op. cit., n.27, 977-978.

6) SAN GIOVANNI DELLA CROCE. Subida del Monte Carmelo. 
L.I, c.4, n.3. In: Vida y Obras. 5.ed. Madrid: BAC, 1964, p.371.

7) Idem, ibidem.

8) Cfr. SANT’AGOSTINO. De Civitate Dei. L.XIX, c.13, n.1. 
In: Obras. Madrid: BAC, 1958, v.XVI-XVII, p.1398.

9) CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Revolução e Contra-Revolução. 
5.ed. São Paulo: Retornarei, 2002, p.132.
Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” da Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.