Vangelo
“In quel tempo, 1 vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2 Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: 3 ‘Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4 Beati gli afflitti, perché saranno consolati. 5 Beati i miti, perché erediteranno la terra. 6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10 Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12a Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli’” (Mt 5, 1-12a)
La festa dei fratelli celesti
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Nella Solennità di Tutti i Santi la Chiesa ci invita a vedere con speranza i nostri fratelli celesti, come stimolo per percorrere interamente il cammino iniziato con il Battesimo e raggiungere la piena felicità nella gloria della visione beatifica.
I – I SANTI, FRATELLI CELESTI?
Nella Solennità di Tutti i Santi la Chiesa celebra tutti coloro che già si trovano nel pieno possesso della visione beatifica, inclusi i non canonizzati. L’Antifona dell’entrata della Messa ci fa questo invito: “Rallegriamoci tutti nel Signore, celebrando la festa di Tutti i Santi”.1 Sì, rallegriamoci, perché santi sono anche – nel senso lato del termine – tutti coloro che fanno parte del Corpo Mistico di Cristo: non solo quelli che hanno conquistato la gloria celeste, ma anche quelli che soddisfano la pena temporale nel Purgatorio, e coloro che, ancora sulla Terra d’esilio, vivono nella grazia di Dio. Che stiamo in questo mondo come membri della Chiesa militante, o nel Purgatorio come Chiesa sofferente, o nella felicità eterna, già nella Chiesa trionfante, siamo un’unica e stessa Chiesa. E come suoi figli abbiamo fratellanza, come dice San Paolo agli Efesini: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2, 19).
I Santi intercedono per noi e danno l’esempio
È per questo che il Prefazio di questa Solennità recita: “Festeggiamo, oggi, la città del Cielo, la Gerusalemme santa, nostra madre, dove i nostri fratelli, i Santi, Ti circondano e cantano eternamente la Tua lode. A questa città affrettiamo il nostro cammino, peregrinando nella penombra della fede. Contempliamo, gioiosi, nella Tua luce, tanti membri della Chiesa, che ci dai come esempio e intercessione”.2
Così, camminando “nella penombra della fede”, rivolgiamo l’attenzione ai Beati, – nostri fratelli, se vivremo nella grazia di Dio –, poiché essi sono più vicini a Colui che è il Capo di questo Corpo, il Signore Gesù. Essi sono motivo di speranza per quelli che patiscono nelle fiamme del Purgatorio. E per noi, che possediamo col Battesimo il germe di questa gloria di cui essi già godono, sono modello della santità di vita che dobbiamo raggiungere. Tutto il nostro impegno sarà poco per ottenere che questa semente si trasformi in albero frondoso, nel pieno sbocciare dei suoi fiori e con abbondanza di frutti, cioè, la gloria eterna, nostra meta ultima.
Dobbiamo avanzare, allora, verso coloro che sono alla presenza di Dio con lo stesso desiderio con cui cercheremmo la nostra famiglia, nel caso non la conoscessimo, poiché, tra i membri di una famiglia armoniosa e ben costituita esiste un’ embricatura, frutto della consanguineità, così incrollabile che, per esempio, se uno dei fratelli raggiunge una situazione di prestigio, tutti gli altri si rallegrano. Maggiore dev’essere l’unione di quelli che, per la filiazione divina, appartengono alla famiglia di Dio, e maggiore anche la gioia nel contemplare i nostri fratelli che lodano Dio nel Cielo, per l’eternità e intercedono per noi presso di Lui. Tali riflessioni ci danno la chiave per analizzare il florilegio delle letture che la Santa Chiesa ha scelto per questa Solennità.
II – CHIAMATI A RIUNIRCI NEL CIELO
La prima lettura, dall’Apocalisse (7, 2-4.9- 14), è piena di bellezza e, allo stesso tempo, difficile da esser spiegata con profondità, in tutti i suoi simbolismi. Soffermiamoci soltanto su due aspetti che la mettono in relazione in modo speciale con questa commemorazione. “Io, Giovanni, vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: “Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi’” (Ap 7, 2-3). Questo bel passo mette in chiaro che Dio promuoverà la fine del mondo solo quando saranno occupati tutti i posti del Cielo e la coorte dei Beati si sarà completata. Vediamo come Dio, al di là delle offese commesse contro di Lui e prima di inviare il castigo sulla Terra, si prende cura dei suoi Santi, di quelli che Lui ha scelto.
Subito dopo, continua San Giovanni: “Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d’Israele” (Ap 7, 4). Questo numero di quanti seguono l’Agnello ovunque (cfr. Ap 14, 4), è simbolico, poiché la quantità dei Santi del Cielo è incalcolabile. Creando il Cielo Empireo – che, secondo San Tommaso,3 è stato la prima creatura a uscire dalle mani di Dio, insieme agli Angeli –, Egli, da tutta l’eternità, aveva il piano di popolarlo con altri esseri intelligenti che, oltre agli spiriti angelici, fossero partecipi della natura divina e, pertanto, soci della sua felicità eterna. Ecco l’appello fatto a noi nella Liturgia di oggi: desiderare e abbracciare la via della santità per far parte di questi centoquarantaquattromila.
Il predominio del male dopo il peccato originale
Ora, a partire dal peccato originale l’uomo ha cominciato a interessarsi in modo intemperante alle cose materiali, e a poco a poco si è dimenticato di Dio. Si è stabilita sulla faccia della Terra la lotta tra il bene e il male, tra le voluttà della carne e la chiamata di Dio alla santità, e nelle relazioni umane il male è entrato con una virulenza straordinaria, poiché questo è dinamico, mentre il bene è appena diffusivo.4 Infatti, se non ci fosse il sostegno della grazia, il male dominerebbe completamente in noi e sconfiggerebbe il bene.
Dal primo Santo, fino a Nostro Signore Gesù Cristo
Questo diventa evidente subito dopo l’uscita di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden, nella storia dei suoi due primi discendenti, Caino e Abele. Abele era un figlio della luce, retto e giusto, i cui sacrifici offerti a Dio erano accettati con enorme benevolenza (cfr. Gn 4, 4). Caino, al contrario, nutriva nella sua anima il nefasto vizio dell’invidia che, essendo giunta al culmine, lo portò a uccidere suo fratello, versando sangue innocente. In seguito, preso da amarezza e depressione, in conseguenza del suo peccato, Caino volle fuggire dal cospetto del Signore, con l’illusione caratteristica del peccatore che crede di poter nascondersi da Dio, come si nasconde dallo sguardo degli uomini (cfr. Gn 4, 8.14).
Quale non sarà stato lo stupore di Eva nel prendere il cadavere di suo figlio tra le braccia e nell’imbattersi, per la prima volta, nell’effetto del peccato commesso nel Paradiso! L’anima di Abele, tuttavia, nell’istante in cui si distaccò dal corpo andò al Limbo dei Giusti, in attesa della venuta del Salvatore che gli avrebbe aperto le porte del Cielo. Precedendo i genitori, egli capeggiò il corteo dei Santi, di coloro che, a poco a poco, avrebbero costituito il numero di quanti sarebbero passati da questa vita alla beatitudine eterna.
L’Incarnazione del Verbo portò nel mondo una miriade di Santi
Nel frattempo, l’Incarnazione del Verbo e la sua presenza visibile tra gli uomini portò nel mondo una miriade di Santi: dai martiri innocenti, fino al Buon Ladrone che, avendo implorato misericordia, ottenne dalle labbra dello stesso Dio il premio di esser perdonato e santificato: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23, 43). Quando Gesù spirò sulla Croce, la sua Anima scese nel Limbo, dove, sicuramente, il primo a riceverLo fu San Giuseppe, che Lo aspettava da pochi anni. Ma fu nel giorno della sua gloriosa Ascensione che il Redentore portò con sé questa coorte esultante di giusti, introducendoli nel Cielo al fine di cominciare a popolarlo. A un certo momento, con gaudio dei Beati, Maria Santissima salì in corpo e anima, e fu incoronata Regina dell’universo.
Si spalancarono le porte della santità
Nel corso dei venti secoli di Storia della Chiesa, le dimore eterne accolsero i martiri, i dottori, i confessori… poiché fu Nostro Signore che aprì definitivamente le porte della santità a tutti gli uomini, con la sovrabbondanza della sua grazia e della sua nuova dottrina dotata di potenza (cfr. Lc 4, 32; Mc 1, 22).
Sinossi di questa dottrina è il Discorso della Montagna, il cui centro è il Vangelo scelto per questa Solennità: la proclamazione delle Beatitudini. Infatti, esse sono il sunto di tutta la morale cattolica, di ogni via di perfezione, di tutta la pratica della virtù, e se in questo giorno commemoriamo le miriadi di Santi che abitano il Paradiso Celeste, è perché esse hanno realizzato nella loro vita quello che il Divino Maestro delinea come causa della beatitudine.
Avendo commentato questo Vangelo in altre occasioni,5 ci limiteremo ora a dare una sintesi degli insegnamenti in esso contenuti, in armonia con la Solennità oggi celebrata.
Il contrasto tra l’Antica e la Nuova Legge
In primo luogo, apprezziamo il contrasto di questa scena del Discorso della Montagna Sacra: la promulgazione dell’Antica Legge, sul Monte Sinai (cfr. Es 19―23). Sembra che Nostro Signore abbia voluto stabilire di proposito una contrapposizione tra i due episodi, al fine di mostrare la bellezza esistente nella Nuova Legge che Egli è venuto a portare, portando la Legge Antica alla maggior perfezione (cfr. Mt 5, 17).
Sul Sinai, Dio rimane in cima alla montagna e Mosè deve salire fin là per ricevere le Tavole della Legge. Cristo, al contrario, scende a metà del monte per incontrarSi con l’uomo e consegnargli, Egli stesso, la Nuova Legge. Così, una Legge è promulgata in cima alla montagna, un’altra sul fianco. Mentre sul Sinai l’uomo deve salire fino a Dio, sulla montagna in cui Gesù fa il suo discorso, Dio scende fino all’uomo.
Sul Sinai l’Onnipotente si presenta fra tuoni, lampi, oscurità e suono assordante di tromba; sulla montagna il Salvatore si siede tra gli uomini, in un ambiente soave, sereno e tranquillo, senza speciali manifestazioni della natura. Sul Sinai, il popolo aveva la proibizione di toccare la base del monte, poiché sarebbe morto se lo avesse fatto; sulla montagna, la moltitudine è vicina a Gesù e può toccarLo, perché da Lui emana una virtù che guarisce tutti.
Sul Sinai, è stato dato a Mosè un codice di leggi, vero codice penale, con severi castighi per chi lo trasgredisse; sulla montagna, Nostro Signore mostra, con una misericordia infinita, quali i premi, i benefici e le meraviglie concesse da Dio a chi pratica la virtù e compie la Legge. Sul Sinai, Mosè rappresenta la Legge, servendo da esempio per il suo zelo nel compiere questa stessa Legge; sulla montagna, Gesù Cristo è il modello perfetto della legge della bontà.
Sul Sinai, per ascoltare le prescrizioni divine sarebbe potuto salire qualsiasi uomo, purché fosse eletto da Dio; sulla montagna, però, solo l’Uomo-Dio, il Signore Gesù, Seconda Persona della Santissima Trinità Incarnata, poteva pronunciare quel Discorso, poiché unicamente Lui, in quanto Messia, aveva autorità per perfezionare la Legge Antica.
In questa prospettiva di bontà, Gesù proclama le Beatitudini, mostrando a che altezze è capace di elevarsi un’anima col fiorire dei doni dello Spirito Santo, producendo atti di virtù eroica. Tali frutti possono sbocciare in maniera isolata, ma, in generale, quando il santo giunge alla pienezza dell’unione con Dio, tutte le beatitudini avvengono in un’unica fioritura. Esser santo, allora, significa essere un beato nel tempo per poi esserlo nell’eternità.
La filiazione divina ci conferisce una qualità
In che cosa consiste, dunque, questa beatitudine? Nella seconda lettura (I Gv 3, 1-3) di questa Liturgia, un bellissimo passo della Prima Lettera di San Giovanni – l’Apostolo dell’Amore, esimio spiritualista, sempre pronto a mettere in risalto la vita soprannaturale – ci dà la risposta, ricordando il valore della nostra condizione di figli di Dio: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (I Gv 3, 1a). In verità, in occasione del Battesimo, sebbene la natura umana continui a essere la stessa, con intelligenza, volontà e sensibilità, si aggiunge in noi una qualità: la partecipazione alla stessa natura divina, che ci assume completamente. La grazia, spiega San Bonaventura, “è un dono che purifica, illumina e perfeziona l’anima; che la vivifica, la riforma e la consolida; che la eleva, la assimila e la unisce a Dio, rendendola accettabile; per questo un simile dono si chiama giustamente grazia, poiché ci rende grati, cioè, grazia gratificante”.6
Essendo un bene dello spirito, non può esser vista con gli occhi materiali, poiché questi captano soltanto ciò che è sensibile, ma comproviamo, questo sì, i suoi effetti. Santa Caterina da Siena, cui Nostro Signore aveva concesso la grazia di contemplare lo stato delle anime, giunse ad affermare al suo confessore: “Padre mio, se vedeste il fascino di un’anima razionale, non dubito che dareste cento volte la vita per la sua salvezza, perché in questo mondo non c’è niente che le si possa uguagliare in bellezza”.7
Certe immagini possono servire per avere un’idea, seppure pallida, delle meraviglie operate dalla grazia nelle anime. Immaginiamo una splendida vetrata, con una perfetta combinazione di colori, fabbricata con vetro della migliore qualità, contenente persino oro nella sua composizione. Una volta posta nella finestra, se non è illuminata, che valore avrà un pezzo così spettacolare? Tuttavia, a partire dal momento in cui i raggi di luce incidono su di essa, brillerà con straordinarie sfumature, dispiegandosi in mille riflessi multicolori.
Un’altra comparazione che pure ci avvicina alla realtà soprannaturale è quella di un litro di alcool nel quale siano versate alcune gocce di una favolosa essenza, finissima e di raffinato aroma. Senza smettere di essere alcool, il liquido diventa profumo, poiché è assunto dall’essenza.
Così come la luce illumina la vetrata e l’essenza assume l’alcool – e potremmo ancora trovare nella natura altre immagini illustrative –, anche la grazia conferisce una nuova qualità all’anima umana, che è, per così dire, sommersa nella natura divina, come commenta Scheeben: “Se tra tutti gli uomini e tutti gli Angeli, Dio scegliesse una sola anima, per comunicarle lo splendore di una così inattesa dignità, […] lascerebbe stupefatti non solo i mortali, ma anche gli stessi Angeli, che si sentirebbero quasi tentati di adorarla, come se fosse Dio in persona”.8 Tale è l’eccellenza della filiazione divina!
Una semente della gloria futura
Figli di Dio… “noi lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (I Gv 3, 1b-2a). Infatti, mentre rimaniamo in questo mondo, in stato di prova, abbiamo la grazia santificante, ricevuta nel Battesimo, e le grazie attuali, che Dio versa su di noi nel corso della nostra esistenza. Tuttavia, siamo soltanto all’inizio del cammino, poiché, solo quando contempleremo Dio faccia a faccia, questa grazia si trasformerà in gloria e giungeremo allo “stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).
L’idea della felicità eterna
Questa è la felicità assoluta di cui i nostri fratelli, i Santi, già godono in pienezza nell’eternità e con la quale nessuna consolazione di questa vita è comparabile. La nostra idea a proposito della felicità è così umana, che riteniamo, molte volte, di possederla in massimo grado ottenendo qualcosa che desideriamo molto. La mera intelligenza dell’uomo non raggiunge la comprensione della felicità del Cielo, poiché in rapporto a Dio siamo come formiche che, andando per la terra, sollevino il capo per guardare il volo di un’aquila nel cielo. La differenza tra una formica e un’aquila è ridicola vicino all’infinitezza esistente tra la ragione umana e l’intelligenza divina. E anche se, dotati di una non comune capacità, passassimo trecento miliardi di anni a studiare, la nostra parola continuerebbe a essere imperfetta e non troveremmo i termini per esprimerci debitamente riguardo a Dio.
L’essenza divina è definita dalla teologia come l’Essere sussistente per Se stesso,9 che Si conosce, Si intende e Si ama interamente, tale come è.10 Da tutta l’eternità, cioè, senza che ci sia un principio, Dio, contemplandoSi, Si comprende interamente in quanto Essere increato, necessario e supereccellente, che non dipende da nessuno, che si basta; in questo consiste la sua felicità assoluta. Tuttavia, la sua stessa conoscenza è così ricca che genera una Seconda Persona, il Figlio, identico a Lui e così felice come Lui. Entrambi si amano, e da questo mutuo amore tra Padre e Figlio ha origine una Terza Persona, anche Lei felice: lo Spirito Santo. Così, ci sono tre Persone, in un solo Dio, che Si conoscono, Si intendono e Si amano, in una gioia perpetua, senza origine nel tempo e senza fine, eternamente!
Un prestito dell’intelligenza divina
Dunque, nel suo infinito amore, Dio ha voluto dare alle creature intelligenti, Angeli e uomini, un prestito della sua luce intellettuale, il lumen gloriæ, affinché possano in essa intender- Lo tale quale Egli Si intende – fatte salve le debite proporzioni tra creatura e Creatore –, visto che, come spiega San Tommaso, “la capacità naturale dell’intelletto creato non basta per vedere l’essenza di Dio” senza esser aumentata dalla “grazia divina”.11 E per quanto sezioni la sua luce, Egli sempre rimarrà immutabile e in nulla sarà diminuito, poiché è infinito.
L’eminente domenicano padre Santiago Ramírez definisce il lumen gloriæ come “un’abitudine intellettuale operativa, infusa per se, per la quale l’intendimento creato si fa deiforme e diventa immediatamente disposta all’unione intellegibile con la stessa essenza divina, e diventa capace di realizzare l’atto della visione beatifica”. 12
Questo “farsi deiforme” significa che chi entra nella beatitudine e contempla Dio faccia a faccia diventa simile a Lui, come afferma San Giovanni nella continuazione della sua Lettera: “Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (I Gv 3, 2b). Solo in Cielo vedremo il Signore Gesù di fatto, visto che, mentre visse sulla Terra, nessuno Lo ha visto tale quale Egli è. Neppure nella Trasfigurazione, quando ha acquistato, come qualità passeggera, il chiarore inerente al corpo glorioso13 – come abbiamo avuto l’opportunità di analizzare in commenti precedenti –, San Pietro, San Giacomo e San Giovanni sono arrivati a contemplare l’essenza della sua divinità, poiché, in caso contrario, la loro anima si sarebbe distaccata dal corpo.
“Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (I Gv 3, 3). Quanto più aumenta in noi la speranza di questo incontro e di questa visione e, pertanto, quanto più cresciamo nel desiderio di consegnarci a Dio e di appartenerGli per intero nella carità, più ci purifichiamo dall’amor proprio e dall’egoismo profondamente radicati nella nostra natura. Dobbiamo aver ben presente che non esistono tre amori, ma soltanto due: l’amore a Dio portato fino all’oblio di se stessi o l’amore a se stessi portato fino all’oblio di Dio.14
III – SEGUIAMO L’ESEMPIO DI COLORO CHE CI HANNO PRECEDUTO NELLA GRAZIA E CI ASPETTANO NELLA GLORIA!
L’uomo, anche quando privato della grazia, ha un’appetenza di infinito che non riposa fino a che non sia saziata dall’unione con Dio. È quanto rivela Sant’Agostino, nelle sue Confessioni: “Ed ecco che Tu eri dentro di me e io fuori, e fuori Ti cercavo; e, difforme com’ero, mi lanciavo sulle cose belle che hai creato. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi trattenevano lontano da Te quelle cose che, se non fossero in Te, non esisterebbero”.15 Questa felicità immensa e indescrivibile, per la quale tutti noi siamo stati creati, la raggiungeremo soltanto seguendo i passi di coloro che ci hanno preceduto con il segno della Fede e che già ne godono, per la loro fedeltà a tale chiamata.
Chiediamo che questa beatitudine eterna sia anche per noi un privilegio, per i meriti del Signore Gesù, delle lacrime della Madonna e dell’intercessione di tutti i Santi che oggi commemoriamo, affinché un giorno ci troviamo in loro compagnia nel Cielo. Fino a quando non vi arriviamo, possiamo rapportarci con questa enorme miriade di fratelli celesti, membri dello stesso Corpo, con un canale diretto molto più efficiente di qualsiasi mezzo di comunicazione moderno: la preghiera, l’amore a Dio e l’amore a loro in quanto uniti a Dio. Stiamo certi che, dall’alto, essi ci guardano con benevolenza, pregano per noi e ci proteggono.
1 SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI. Antifona d’ingresso. In: MESSALE ROMANO. Trad. Portoghese della 2a. edizione tipica per il Brasile realizzata e pubblicata dalla CNBB con aggiunte approvate dalla Sede Apostolica. 9.ed. São Paulo: Paulus, 2004, p.691. 2 Idem, Prefazio, p.692. 3 Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Summa Teologica. I, q.61, a.4. 4 Cfr. Idem, q.5, a.4, ad 2. 5 Cfr. CLÁ DIAS, EP, João Scognamiglio. Radicale cambiamento di modelli nel rapporto divino e umano. In: Araldi del Vangelo. Mira. N.93 (gen., 2011); p.10-17. 6 SAN BONAVENTURA. Breviloquio. P.V, c.1, n.2. In: Obras. 3.ed. Madrid: BAC, 1968, vol.I, p.324. 7 BEATO RAIMONDO DA CAPUA. Santa Caterina da Siena. 5.ed. Siena: Cantagalli, 1994, p.149. 8 SCHEEBEN, Matthias Joseph. As maravilhas da graça divina. Petrópolis: Vozes, 1952, p.29. 9 Cfr. ROYO MARÍN, OP, Antonio. Dios y su obra. Madrid: BAC, 1963, p.47-49. 10 Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., q.14, a.2-4; q.20, a.1. 11 Idem, q.12, a.5. 12 RAMÍREZ, OP, Santiago. De hominis beatitudine. In I-II Summæ Theologiæ Divi Thomæ commentaria (QQ. I-V). II P., Q.II, Sect. III, n.298. Madrid: Instituto de Filosofía Luis Vives, 1972, t.IV, p.342. 13 Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., III, q.45, a.2. 14 Cfr. SANT’AGOSTINO. De Civitate Dei. L.XIV, c.28. In: Obras. Madrid: BAC, 1958, voll.XVIXVII, p.984. 15 SANT’AGOSTINO. Confessionum. L.X, c.27, n.38. In: Obras. 6.ed. Madrid: BAC, 1974, vol. II, p.424.
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