VANGELO
“In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: 13 ‘Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo. 14 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15 perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. 16 Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17 Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui’” (Gv 3, 13-17).
La Croce, centro e apice della Storia
Per comprendere la configurazione del magnifico piano divino della creazione, dobbiamo vedere la Redenzione operata sulla Croce come il centro della Storia, intorno al quale tutto si coniuga per la gloria di Dio, perfino il peccato.
I – la Croce ci ha aperto le porte del Cielo
Quando Adamo ed Eva, a causa del peccato, furono espulsi dal Paradiso, le porte del Cielo si chiusero per l’uomo, e così sarebbero rimaste fino a oggi se non ci fosse stata la Redenzione. Potremmo piangere la nostra colpa, ma le lamentazioni a nulla gioverebbero per ottenerci la convivenza eterna con Dio, poiché solo una Sua iniziativa lo potrebbe fare. Ed è quello che è successo quando Si è incarnato ed è morto per noi sulla Croce.
È per questo che la Chiesa vuole concentrare l’attenzione dei fedeli su questo augusto Legno, celebrando la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, e il giorno successivo la commemorazione della Madonna dei Dolori, che unisce alla Croce le lacrime di Maria Santissima, Corredentrice del genere umano. In entrambe le celebrazioni, la Liturgia ci permette di venerare in modo speciale lo strumento della nostra salvezza, il quale è diventato oggetto di adorazione a partire dal momento in cui Gesù Cristo è stato in esso crocifisso, con terribili chiodi che hanno trafitto la sua Carne sacra. Tale è il potere del preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo! Dobbiamo adorare la Croce con la stessa latria che tributiamo all’Uomo-Dio, sia perché è immagine di Lui sia perché è stata toccata dalle sue membra divine e inondata dal suo Sangue.1 Per questo motivo, si raccomanda di mantenere due candele accese durante l’esposizione di una reliquia del Santo Legno.
Di fronte al panorama presentato dalla Chiesa in quest’occasione, è necessario considerare in maniera appropriata il mistero di un Dio crocifisso.
L’universo è ottimo nel suo insieme
Come insegna la teologia, tutto quanto Dio ha creato avrebbe potuto essere più perfetto, ad eccezione di tre creature: l’umanità santissima di Gesù Cristo, la visione beatifica e la Madre di Dio.2 Intanto, è importante ricordare che, nel suo insieme l’universo non potrebbe essere stato migliore, poiché il suo ordine è insuperabile.3 La Genesi descrive come, nei giorni della creazione, Dio gettò il suo sguardo su ognuna delle parti della sua opera e vide che erano buone; al sesto giorno, però, quando la contemplò intera, vide che era ottima (cfr. Gen 1, 31).
Tuttavia, pare difficile conciliare questa idea di perfezione dell’universo con l’esistenza del peccato. Sarebbe ben più di nostro gradimento un mondo libero da qualsiasi ostacolo, problema o complicazione, in cui tutte le creature fossero eccellenti, gli Angeli e gli uomini corrispondessero pienamente alla grazia, senza commettere una sola mancanza, e non ci fosse l’inferno. Ora, in queste condizioni la Redenzione sarebbe superflua, ed è probabile che neanche il Verbo Si sarebbe incarnato, per cui si inferisce che Dio non avrebbe scelto una Madre per Sé. Delle tre creature perfettissime esistenti ora – Gesù, Maria e la visione beatifica –, rimarrebbe soltanto quest’ultima. L’universo sarebbe meno bello e darebbe al Creatore una gloria minore del nostro, macchiato dalla colpa originale e da tutte le sue conseguenze.
Passiamo, allora, ad analizzare la Liturgia di oggi entro questa prospettiva, per intendere in profondità il problema della Croce.
II – Una prefigurazione di Cristo Crocifisso
La prima lettura, tratta dal Libro dei Numeri (21, 4-9), narra un episodio della traversata del deserto verso la Terra Promessa: “Gli Israeliti partirono dal monte Cor, dirigendosi verso il Mar Rosso per aggirare il paese di Edom.” (Nm 21, 4). Era una marcia penosa, perché era un terreno arido, inospitale e senz’acqua.4 Inoltre, il popolo si era stancato della manna, il “pane del cielo” (Sal 105, 40) che Dio gli concedeva per alimento, facendolo piovere insieme alla rugiada (cfr. Nm 11, 9). Siccome gli israeliti, per il fatto di essersene andati da un ambiente impregnato di tremenda voluttà, dovevano acquisire gusti temperati: la manna, che era un cibo leggero, di cui si poteva solo raccogliere una determinata misura, sebbene soddisfacesse l’appetito, li lasciava con la sensazione che mancasse loro qualcosa. Essi volevano alimenti robusti, come le cipolle e l’aglio d’Egitto, della cui mancanza già si erano lamentati poco prima (cfr. Nm 11, 5).
Questa situazione del popolo ebreo ci suggerisce un’analogia con la vita spirituale. Tutti noi, battezzati, siamo convocati a entrare nella “Terra Promessa” della santità e, a un certo punto del percorso, dobbiamo attraversare il deserto dell’aridità. La sensibilità del soprannaturale si ritrae, scompare dal nostro panorama interiore qualsiasi consolazione o rifugio palpabile e, se non sappiamo sopportare l’assenza di questi stimoli, piangiamo per le “cipolle dell’Egitto”, che sono gli elementi del passato ai quali rinunciamo per percorrere le vie della virtù. In tali fasi di difficoltà, per il nostro cammino abbiamo soltanto una manna proveniente dal Cielo: la grazia cooperante, che Dio non smette di concedere, ma esige da parte nostra lo sforzo e il sacrificio.5
Il popolo eletto si ribella contro Dio e contro il suo profeta
Umanamente parlando, la rivolta sarebbe stata una reazione comprensibile nel momento storico nel quale gli israeliti si trovavano. Tuttavia, il testo racconta che il popolo non manifestò soltanto mancanza di conformità con la precarietà materiale, ma “il popolo disse contro Dio e contro Mosè” (Nm 21, 5a). Rivolgendosi al profeta, gli addebitavano quello che avrebbero richiesto a Dio stesso, nel caso Lo avessero incontrato: “Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero” (Nm 21, 5b). Ora, la manna era un miracolo rinnovato da Dio tutti i giorni! Immaginiamo queste parole dette dall’invitato di un banchetto al suo anfitrione… Non deve esser stata molto diversa la malignità che Lucifero lanciò contro Dio quando si ribellò in Cielo, tale è la mancanza di generosità e di amore che questa lamentela racchiude! È stato un peccato contro il Primo Comandamento, “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 5).
Il popolo è castigato
Dio, però, non tollera che ci sia una rivolta contro i suoi mediatori, al punto da considerare i mormorii del popolo come reclami fatti a Se stesso. Anche noi Lo provochiamo in modo analogo quando non accettiamo gli insuccessi, le prove e i dolori della vita, poiché questo atteggiamento è, in fondo, una protesta contro Dio.
Per castigare i figli di Israele, il Signore mandò terribili serpenti – “ardenti”,6 secondo l’originale ebraico –, che infestarono l’accampamento. Non è detto che Dio li abbia creati in quell’istante; di sicuro Egli li ha riuniti, in grande quantità, e li ha liberati lì. La loro velenosa puntura causava febbre altissima che uccideva in poco tempo, ed è stato grande il numero delle vittime.
Dopo la morte di “un gran numero d’Israeliti” (Nm 21, 6), il popolo ha riconosciuto in questa calamità un castigo divino e, alla fine, la paura, che non sempre propizia la conversione, li ha portati al pentimento. Ed era questo l’obiettivo di Dio. Sono stati loro a chiedere l’intercessione di Mosè, ammettendo che il peccato commesso aveva una duplice portata, poiché aveva offeso l’Altissimo e il suo rappresentante: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te” (Nm 21, 7).
Il serpente di bronzo
Dio rispose alle suppliche di Mosè con la seguente raccomandazione: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita” (Nm 21, 8). E non eliminò i serpenti, permettendo che essi continuassero i loro attacchi contro gli ebrei. Già perdonati da Dio – liberi, pertanto, dalla pena eterna di quel peccato –, gli israeliti espiavano in questo modo la pena temporale, alla quale il peccatore resta soggetto in virtù dell’attaccamento disordinato ai beni terreni, che ogni peccato, sia mortale che veniale, comporta.7
Mosè compì la determinazione divina, e si stabilì a partire da quel momento una situazione di miracolo permanente e incontestabile davanti a quanti avevano assistito a innumerevoli morti prodotte dai roventi serpenti. Chi era stato morso sapeva che non esisteva rimedio al suo male, e l’unica chance di sopravvivenza era presso Mosè, poiché il profeta portava sempre con sé il vincastro nella cui estremità aveva fissato il serpente di bronzo. Così, Dio manifestava l’impegno a mantenere il principio di mediazione e faceva in modo che gli israeliti verificassero non solo la sua onnipotenza e bontà, ma anche i benefici di avere un profeta che li guidasse e intervenisse a loro favore.
La conseguenza di non accettare la sofferenza
La narrazione presente nel Libro dei Numeri richiama l’attenzione su una cosa molto importante: l’atteggiamento degli uomini di fronte al dolore. Il popolo eletto, libero dalla schiavitù degli egizi e condotto alla Terra Promessa, aveva già presenziato a portentosi miracoli realizzati da Dio attraverso Mosè, come, per esempio, l’apertura del Mar Rosso. Ciò nonostante, quando si videro obbligati ad affrontare una situazione difficile, immediatamente incolparono il profeta, loro liberatore – e anche Dio stesso, per aver posto quell’uomo nel loro cammino –, accusandolo di essere la causa della loro sventura. Volendo sopprimere ogni possibile sofferenza, essi si ribellarono contro Dio e caddero in una tribolazione ancor maggiore: il Signore Si tirò indietro e li castigò con i serpenti.
A noi tocca trarre da qui una lezione: non cerchiamo mai di fuggire dalla croce, poiché, oltre a essere un tentativo inutile, essa diventerà maggiore e più pesante, come accadde agli ebrei nel deserto.
III – Il vero serpente sollevato nell’asta
Alla luce del Vangelo di San Giovanni proposto dalla Liturgia di questa festa, la statua del serpente di bronzo si riveste di un nuovo significato, presentandosi come una prefigurazione dell’azione redentrice di Gesù Cristo in Croce. Dio ha voluto che questo stesso animale, per il suggerimento del quale il peccato e la morte si sono introdotti nel mondo, si trasformasse in un segno di guarigione per i figli di Israele, rappresentando il Divino Redentore, che ci avrebbe portato la vera vita, come si legge nel Libro della Sapienza: “Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti.” (16, 7). Spiegando questa prefigurazione, San Giustino afferma che in essa “Dio annunciava un mistero, per mezzo del quale avrebbe distrutto il potere del serpente, autore della trasgressione di Adamo, e, allo stesso tempo, la salvezza per quelli che avessero creduto in chi era simbolizzato da questo segno, ossia, in Colui che avrebbe dovuto essere crocifisso e liberarli dai morsi del serpente, che sono le cattive azioni, le idolatrie e altre iniquità”.8
Sebbene ci causi un certo choc, quest’immagine del serpente è ricca di simbolismo. Infatti, si tratta di un animale pericoloso e che, curiosamente, è stato sempre messo in relazione alla medicina, essendo emblematico del potere di guarigione. Il suo veleno è letale, ma possiede anche proprietà terapeutiche che, una volta lavorate, sono utilizzate come medicina. Ecco la vita e la morte sintetizzate in uno stesso animale, quale pietra di scandalo: chi sa trarne profitto, ottiene elementi per il recupero della salute; chi si trascura, è punto e muore.
Mettendo a confronto la figura con la realtà, vedremo che Dio avrebbe anche potuto operare la Redenzione eliminando per sempre il peccato e i suoi effetti, con una semplice deliberazione, senza il concorso di alcun intercessore. Tuttavia, permise che gli uomini continuassero a essere soggetti al peccato, lasciando a disposizione di tutti la possibilità di trovare il perdono presso il “mediatore della Nuova Alleanza” (Eb 12, 24), Nostro Signore Gesù Cristo. Da qui si capisce perché Simeone, quando ricevette in braccio il Bambino Gesù, proclamò che Egli sarebbe stato una pietra di scandalo, poiché sarebbe servito alla salvezza o condanna di molti (cfr. Lc 2, 34). Egli è, infatti, divisore. Chi è toccato dal peccato e Lo guarda, trova il rimedio ai suoi mali. Ma, guai a chi cerca la soluzione al di fuori di Lui!
Un fariseo simpatico al Messia
Tutta questa dottrina è ben fissata nella conversazione notturna di Nostro Signore con Nicodemo, di cui questo Vangelo raccoglie un breve passo che si coniuga in maniera straordinaria con la prima lettura. Oltre che essere alquanto succulenta in contenuto, questa conversazione deve esser durata varie ore. Purtroppo San Giovanni la sintetizza in scarsi paragrafi, di per sé pieni di meraviglie.
Secondo San Giovanni Crisostomo, Nicodemo “era già ben disposto in relazione a Cristo, sebbene la sua fede fosse ancora labile e grossolana come quella di tutti i giudei”.9 Essendo fariseo e membro del Sinedrio, egli sapeva della cattiva stima che questo nutriva nei confronti di Gesù, e non voleva manifestare la sua adesione a Lui per non dover affrontare il proprio ambiente. Per tale ragione “andò da Gesù, di notte” (Gv 3, 2), spostandosi furtivamente per le strade, le quali, in quell’epoca, erano illuminate solamente dalla luce della Luna e delle stelle. Forse egli aveva sperato in una notte di Luna nuova o di cielo nuvoloso, in modo da evitare che la sua ombra si proiettasse sulle vie e, approfittando della caduta notturna della temperatura, si era coperto bene, fino alla testa.
Questo buon fariseo andava alla ricerca di Nostro Signore non solo per la curiosità di vedere da vicino quel Maestro, la cui fama si diffondeva per tutti gli angoli di Israele, ma anche perché desiderava scoprire da dove venisse il potere di operare miracoli, la forza di espressività di Gesù e la capacità di penetrazione dei suoi insegnamenti, e si chiedeva se Lui non fosse un profeta precursore del Messia. Nicodemo aveva la mente piena di interrogativi, poiché era un uomo di spirito logico, di principi dottrinali molto solidi e un esimio conoscitore della Legge e delle Scritture, costante oggetto del suo studio. E lui voleva confrontare il suo sapere con la novità tratta da Cristo. Gradatamente, nel corso della conversazione, il Divino Maestro lavorerà la sua anima e gli aprirà gli occhi alla Fede.
Un’allusione all’unione ipostatica
“In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: 13 ‘Nessuno è mai salito al cielo, se
non Colui che è disceso dal cielo’”.
Siccome Nicodemo era un fariseo convinto, il Divino Maestro usa un metodo molto didattico e prudente per parlargli dell’Incarnazione. Se gli avesse rivelato il mistero dell’unione ipostatica, dicendo: “Io sono Dio, sono la Seconda Persona della Santissima Trinità e ho assunto la natura umana”, il suo interlocutore non avrebbe capito, anzi avrebbe giudicato tale affermazione una blasfemia. È per mezzo di un linguaggio figurato che Gesù conversa a questo riguardo, in modo da permettere che la grazia, creata da Lui stesso, operi nell’anima di Nicodemo. Ecco un principio per l’apostolato: quando ci troviamo in un ambiente ostile alla Fede o impreparato a ricevere la Buona novella, il miglior modo di evangelizzare è attraverso figure. Per questo, l’arte, tutta fatta di simboli, è un mezzo stupendo di allontanare dal peccato le generazioni più pervertite e portarle alla santità.
All’inizio, Nostro Signore dice che “nessuno è salito al Cielo”, riferendoSi alla situazione degli uomini dopo il peccato originale, a cui era impedito di entrare. Tutti i giusti dell’Antico Testamento si trovavano nel Limbo, dove non c’era fuoco, né oscurità o tormenti, ma l’anelito della felicità eterna, inerente a ogni creatura umana, rimaneva insaziato.10 Tuttavia, quando il Figlio “è sceso dal Cielo”, incarnandoSi, Egli non ha abbandonato il Cielo, poiché è Dio. E siccome la sua Anima umana è stata creata nella visione beatifica dal primo istante della sua esistenza, Gesù poteva dire con proprietà che “salì in Cielo”. Dunque, “nessuno” è salito in Cielo prima della Redenzione, se non il Signore Gesù. Questa affermazione solleva un interrogativo nella testa di Nicodemo, mentre Nostro Signore proseguiva il discorso, riallacciandosi all’episodio dei serpenti nel deserto.
La realizzazione della prefigurazione
14 “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15 perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.
Come quegli animali velenosi si propagarono per l’accampamento degli ebrei, così il male penetrò sulla Terra con il peccato di Adamo. E non c’è altra salvezza per gli uomini se non guardare al vero serpente di bronzo, Nostro Signore Gesù Cristo crocifisso.
La prefigurazione del serpente, però, è nulla in comparazione con quello che si è verificato di fatto, perché la realtà è sempre molto più ricca del simbolo. Nostro Signore avrebbe potuto perdonare soltanto la nostra colpa, di modo che, con l’anima in ordine, avessimo un’eternità felice dal punto di vista naturale. Ma Lui, oltre a guarirci dal peccato, offre la possibilità di partecipare alla sua stessa vita divina, che mai otterremmo con i nostri soli sforzi. Siamo invitati a credere in Lui, accogliendo quanto ci ha portato venendo al mondo, sia la sua dottrina, sia la sua grazia, ricevuta, soprattutto, attraverso i Sacramenti. In una parola, accettare la Chiesa e vivere in unione con essa. Per questo, era necessario che il Figlio dell’Uomo fosse innalzato sul Legno, come Gesù rivela qui a Nicodemo. In quest’affermazione traspare anche la divina didattica di Nostro Signore, che ha cura di non usare il termine crocifissione, ma impiega l’espressione “esser innalzato”, che avrebbe potuto significare anche la sua Ascensione al Cielo, dipendendo da come Nicodemo la interpretasse. Nell’apostolato, molte volte, dobbiamo agire in questo modo, di proche en proche, al fine di predisporre le anime ad accettare la piena verità, senza porvi ostacoli.
L’infinito amore del Padre per gli uomini
16 “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”.
Per approfittare dell’immensa ricchezza teologica di questo versetto, pensiamo, in primo luogo, che il Padre celeste non può dimenticarSi di nessuna delle sue creature. Se, per assurdo, questo succedesse, esse tornerebbero al nulla nello stesso istante, poiché è Lui che tutto sostiene nell’essere. Ricordiamoci anche che Dio non può creare qualcosa che non sia per Sé, per il suo profitto e la sua gloria. Stando così le cose, Egli non cesserà mai di avere apprezzamento per gli esseri ai quali ha dato l’esistenza. E così grande è questo amore che Egli dà al mondo suo Figlio Unigenito, affinché tutti abbiano vita e “l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10).
Senza questa oblazione, noi – nella migliore delle ipotesi – saremmo destinati a passare l’eternità nel Limbo, alla luce della nostra stessa intelligenza, cosa che non può esser chiamata una vera vita. Nostro Signore ci offre la vita eterna in Cielo, dove riceveremo la luce di Dio stesso per contemplarLo per sempre, come dice il Salmo: “in lumine tuo videbimus lumen – alla tua luce vediamo la luce” (36, 10), la luce della visione beatifica.
Il Figlio è sceso dal Cielo per abbracciare la Croce
Quale è stata la via scelta da Dio per consumare la consegna di suo Figlio al mondo? La più perfetta di tutte – infatti Egli non può desiderare per Sé nulla che sia inferiore – ma causa stupore: la morte in Croce! Noi avremmo preferito che Lui trionfasse sul male dall’inizio e non soffrisse i tormenti della Passione. In verità, se Gesù avesse offerto al Padre un semplice battito di ciglia, un gesto, una parola o un atto di volontà, sarebbe stato sufficiente per riparare il nostro peccato. Invece, come insegna San Paolo nella seconda lettura di oggi (Fl 2, 6-11), “Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-8). Essendo Dio, il Figlio possiede la gioia eterna e avrebbe potuto dare alla sua natura umana una vita terrena piena di diletti. Ciò nonostante, la natura divina comunicò a Cristo-Uomo il piacere di abbracciare la Croce, esservi inchiodato e morire, compiendo la volontà di Colui che Lo aveva inviato (cfr. Gv 5, 30), per salvare gli uomini dalla morte eterna.
Simbolo della perfezione dell’universo
17 “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo,
ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
Udendo queste parole, Nicodemo capì, certamente – sebbene in modo un po’ nebuloso –, che iniziava un nuovo regime nella storia del popolo eletto: l’era della giustizia inclemente era terminata e cominciava l’era della misericordia. E questa, tanto più forte dell’altra! A tal punto, che l’inoppugnabile impeto della giustizia, capace di portare le sue decisioni fino alle ultime conseguenze, si arrende quando incontra la misericordia. Perché la misericordia è come l’acqua, e la giustizia, come il fuoco. Questa brucia, distrugge e consuma, ma al contatto con l’acqua, si estingue, e scompaiono le fiamme, le braci e tutto l’ardore. All’umanità che gemeva sotto la minaccia di un castigo, la Provvidenza mandò l’ossigeno della misericordia, del quale viviamo da oltre due millenni.
Insomma, fu con l’intento di salvarci che la Santissima Trinità promosse la venuta del Figlio al mondo. Fin dall’eternità la Croce è stata nella mente di Dio, con un ruolo centrale nella Storia, come strumento per la realizzazione della perfezione delle perfezioni dell’universo, suo maggior onore e sua eccelsa bellezza: la Redenzione. Di fronte a questo panorama è possibile, anche, capire perché Dio abbia permesso il peccato. Nel piano della creazione, la suprema gloria non è l’inesistenza di questo male, ma l’Uomo-Dio, che Si è lasciato prendere e crocifiggere, per amore nostro.
IV – La Croce, fonte di gloria
A prima vista, allora, sembrerebbe contraddittorio quello che commemoriamo in questa festa: l’Esaltazione della Santa Croce. Invece, la Croce, un tempo considerata come il peggiore dei disastri nella vita di un uomo, un simbolo di ignominia servito per l’esecuzione di tanti criminali, è oggi esaltata dalla Chiesa perché il Signore Gesù è venuto al mondo mostrando quanto essa Gli sia propria. È “il segno del Figlio dell’uomo” (Mt 24, 30) ed Egli l’ha trasformata in un segno di trionfo! Per questo, la Croce trionfa in cima alle cattedrali, sulla punta delle corone e al centro delle più importanti medaglie.
La Croce è la via della gloria. Con quanta ragione si dice: “Per crucem ad lucem – È per la croce che si giunge alla luce”. Ed è questo il principio che la Liturgia di oggi offre a nostro beneficio spirituale: se vogliamo raggiungere la santità, nulla è così centrale quanto saper soffrire. Il tratto comune di tutti i Santi è proprio il loro atteggiamento di fronte alla Croce. Infatti, il momento decisivo della nostra perseveranza non è quello in cui la grazia sensibile ci tocca e facciamo passi vigorosi nella virtù, quanto, invece, l’ora della prova, quando le tentazioni ci assaltano e sperimentiamo la nostra debolezza. Non è senza motivo che, insegnando il Padre Nostro, il Divino Maestro ha detto “liberaci dal male”; ma Egli non ha impiegato lo stesso verbo nella richiesta riguardante le tentazioni: “non ci indurre in tentazione”. Esser tentato è qualcosa di inevitabile e necessario dopo il peccato originale. In quest’ora, dobbiamo resistere abbracciati alla croce, certi che in essa si trova la nostra unica speranza: “Ave Crux, spes unica!”. E quando commettiamo una colpa o la nostra vita interiore sembra incagliarsi, dandoci la sensazione di non essere amati da Dio, ricordiamoci che questa impressione è contraria alla rivelazione fatta da Nostro Signore nel Vangelo che abbiamo ora considerato; pensiamo che Dio ci ama tanto, che il Figlio Si è incarnato e ha sofferto la Passione della Croce per salvare ciascuno di noi, individualmente.
Glorifichiamo traboccanti di giubilo, in questa festa, il segno della nostra salvezza e il pegno della resurrezione futura, e sappiamo portare sempre la nostra croce con amore e venerazione, come ha fatto il nostro Salvatore prima di cominciare la Via Crucis.
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