Vangelo
1 Diceva anche ai discepoli: “C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2 Lo chiamò e gli disse: ‘Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore’. 3 L’amministratore disse tra sé: ‘Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. 4 So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua’. 5 Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: ‘Tu quanto devi al mio padrone?’ Quello rispose: ‘Cento barili d’olio’. 6 Gli disse: ‘Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta’. 7 Poi disse a un altro: ‘Tu quanto devi?’ Rispose: ‘Cento misure di grano’. Gli disse: ‘Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta’. 8 Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 9 Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. 10 Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. 11 Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? 13 Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 16, 1-13).
La prudenza della carne e la prudenza santa
L’amministratore infedele usa la prudenza per garantire la propria sussistenza. Questa stessa sagacità e diligenza la dovrebbero avere i figli della luce per ottenere la santità.
I – L’uomo di fronte alla povertà
C’era un paese nel quale, secondo quanto narra San Giovanni Damasceno, i cittadini annualmente eleggevano un nuovo re al fine di evitare i rischi di una possibile tirannia. Conoscitori della sete di comando insita in ogni uomo, non consentivano la stabilità perenne del monarca: alla fine dell’anno, egli era detronizzato e deportato su un’isola deserta nella quale, dopo qualche tempo, moriva per mancanza di mezzi e di cibo. È stato questo il destino di vari re fino a che uno, durante il suo esiguo regno di 360 giorni, trasportò su quest’isola tutto il possibile in materia di sussistenza per il resto della sua vita.
Egli ha saputo aggirare il più temuto dei mali, ossia, la povertà. In parte, si comprende questo timore in funzione di alcuni istinti della nostra natura, come, per esempio, quello di conservazione e quello della socievolezza. La prospettiva della carenza dell’essenziale per la nostra vita ci lascia storditi. La miseria estrema, senza un intervento di Dio, distrugge nell’uomo le ultime energie, fissa la sua attenzione alla materia e lo rende incapace di elevare lo sguardo su considerazioni spirituali. Tale era, secondo la narrazione di San Giovanni Damasceno, la situazione dei re esiliati, una volta scaduto il loro mandato, che lottavano per la vita su un’isola priva di mezzi.
Lasciamo da parte i casi estremi come quello appena menzionato e focalizziamo la nostra attenzione sulla comune povertà, quella che consiste nell’ottenere lo stretto necessario e, pure così, mediante un arduo sforzo. In queste circostanze, pur conoscendo il grande apprezzamento che Dio manifesta per la povertà, come pure per tutti i privilegi ad essa relativi – le Scritture sono pervase da riferimenti a tal riguardo – le apprensioni della creatura umana di fronte alle contingenze della povertà, la conducono ad optare per le vie della falsa o vera prudenza.
Una falsa prudenza
Questa virtù, quando è falsa, intesa quindi in senso peggiorativo, ricerca un fine volgare, temporale e passeggero. Essa è frutto di una filosofia pagana per la quale non esiste Dio, né l’anima umana e la remunerazione futura. Quest’impostazione di spirito è ben sintetizzata nell’atteggiamento delle vergini stolte (cfr. Mt 25, 1-13) e ripudiata da Dio in innumerevoli passi dell’Antico e Nuovo Testamento (cfr. Pr 4, 19; 25-26; I Cor 1, 19; Rm 8, 6; I Tm 3, 2 s; I Pt 4, 7; ecc.). Non poche volte la falsa prudenza sa impiegare astuzie e artifici per ottenere i beni terreni, ma non quelli eterni. Per lei, il fine giustifica i mezzi. Essa si basa sulla saggezza di questo mondo e da qui sorgono equivoci come, per esempio, quello di volere costruire edifici eterni con ciò che è solo passeggero. Così commenta San Paolo: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: ‘Egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia’. E ancora: ‘Il Signore sa che i disegni dei sapienti sono vani’” (I Cor 3, 18-20).
La virtù della prudenza
Diametralmente opposta è la vera virtù della prudenza. Ad essa si aggrappa soltanto chi si lascia condurre dalla grazia di Dio, nella prospettiva di una vita fatta di povertà. Il quadro a lato ci chiarisce bene quanto questa virtù consista nella retta scelta dei mezzi convenienti per ottenere un determinato fine.
Chi magistralmente ha saputo mettere in pratica questa bella dottrina la bella virtù della prudenza, è stato Sant’Ignazio di Loyola, il Fondatore della Compagnia di Gesù, nella prima meditazione dei suoi Esercizi Spirituali: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio Nostro Signore, e mediante questo salvare la sua anima”. Saper servirsi delle creature – incluso il denaro – per raggiungere questo fine, è il divino insegnamento somministrato da Gesù nella parabola dell’Amministratore infedele, ma prudente, della Liturgia di oggi.
II – L’amministratore infedele
1 Diceva anche ai discepoli: “C’era un uomo ricco che aveva un
amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i
suoi averi”.
“Nelle tre parabole precedenti” – commenta don Juan de Maldonado – , “Cristo aveva insegnato la cura che Egli metteva nel convertire i peccatori e la sua benignità verso quelli già convertiti; in questa invece, riferendosi alla benignità di Dio, insegna l’impegno e la diligenza che i peccatori devono, a loro volta, impiegare per convertirsi all’amicizia divina. Per questo motivo ha esposto le tre parabole anteriori agli scribi e ai farisei, che Gliene avevano dato l’occasione e, per altro verso, questa Egli la propone ai discepoli e a tutti quelli che Lo ascoltavano. Questo significa la frase: ‘Diceva anche ai suoi discepoli’, ossia, allo stesso modo come prima aveva fatto con gli scribi e i farisei, come osserva San Geronimo”.1
Al di là del commento di Maldonado, dobbiamo osservare, per una migliore chiarezza di interpretazione, che i farisei continueranno ad essere presenti come ascoltatori anche in questa quarta parabola, come possiamo constatare nelle parole di Luca subito al termine della stessa: “I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui” (Lc 16, 14). D’altra parte, la sequenza di parabole – quella della pecora smarrita, quella della dracma perduta, quella del figliol prodigo (in Italia si tende a preferire il titolo: padre misericordioso) e questa dell’amministratore infedele, ma prudente – è iniziata a causa dello scandalo che ha significato agli occhi dei farisei e dei dottori della legge, il fatto di vedere “tutti gli esattori delle imposte e peccatori” approssimarsi a Gesù per essere istruiti: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (Lc 15, 1-2). Ecco perché Gesù ha proposto loro le tre parabole sulla misericordia. Pertanto anche in questa quarta sono compresi gli scribi e i farisei. Tanto più che Egli dirà loro come una delle conclusioni: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza…”.
Siamo amministratori di beni altrui e transitori
Da quello che si può dedurre dai versetti 6 e 7, relativi ai debiti che l’amministratore aveva obbligo di ben condurre e riscuotere, le proprietà di questo tal “uomo ricco” avrebbero dovuto consistere in oliveti e campi di grano. Tutto porta a credere – e la maggioranza dei commentatori concorda su questo giudizio – il fatto che egli “sperperi gli averi” del suo padrone non soltanto a causa della rilassatezza, ma anche degli abusi commessi per soddisfare i suoi piaceri personali.
Già all’inizio, in questo versetto del Vangelo di oggi, viene a proposito un’applicazione morale per ognuno di noi: “Un’idea erronea che domina gli uomini, aumenta i loro peccati e diminuisce le loro buone azioni, consiste nel credere che tutto quanto abbiamo per i bisogni della vita, lo dobbiamo possedere come padroni e, di conseguenza, lo cerchiamo come il bene principale. Invece, è esattamente il contrario, poiché non siamo stati collocati in questa vita come padroni nella loro propria casa, ma, questo sì, come ospiti e forestieri condotti dove non vogliamo andare e quando non pensiamo: chi ora è ricco, tra poco sarà un mendicante. Così, chiunque noi siamo, dobbiamo sapere che siamo soltanto dispensatori di beni altrui, dei quali ci è stato dato uso transitorio e diretto per molto breve tempo. Stia lontano, dunque, dalla nostra anima l’orgoglio della dominazione, e abbracciamo l’umiltà e la modestia dell’amministratore o affittuario”.2 Dio, pertanto colloca nelle mie mani i beni del corpo e dell’anima – i beni materiali e quelli della grazia, vita, talenti, ricchezze, ecc. – affinché io li amministri in funzione della sua Legge e gloria. Che uso faccio dei beni ricevuti dalle mani di Dio?
Improvvisa resa dei conti
2 “Lo chiamò e gli disse: ‘Che è questo che sento dire di te? Rendi
conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere
amministratore’”.
Il padrone della parabola non dimostra di essere molto vigile sui suoi propri beni, poiché è soltanto dopo aver ricevuto da altri le informazioni riguardo alla cattiva condotta del suo amministratore che si mette in azione per riprendere il controllo della situazione. L’ausilio per avere una reale nozione degli affari e delle iniziative intraprese nella sua proprietà gli giunge alle orecchie tramite persone invidiose e che desiderano rimanere nell’anonimato per non esporsi a rappresaglie o vendette.
È comprensibile l’atteggiamento del padrone di chieder conto, perché anche noi, nel nostro rapporto con Dio, “quando, invece di amministrare in modo da compiacerLo, i beni che ci sono stati affidati, ne abusiamo per soddisfare i nostri desideri, ci convertiamo in affittuari colpevoli”.3
Oltretutto, si capisce da questa sentenza proferita dal padrone, la sua impossibilità di applicare un castigo proporzionato. “‘Non potrai più essere mio amministratore’, perché è questa la prima sanzione che riceve chi amministra male i beni del suo padrone, anche perché non può neppure essere una consuetudine che un ricco castighi in un’altra maniera, in quanto l’amministratore non è uno schiavo che potrebbe essere frustato o ucciso, ma un uomo libero al quale il padrone non potrebbe dare altro castigo se non quello di privarlo dell’onore e dell’incarico. Così si può applicare al peccatore che, per la sua cattiva amministrazione, cioè, per la sua cattiva osservanza della Legge di Dio, non è sempre rimosso dalla sua funzione né escluso dalla Chiesa, non è sempre privato della sua dignità ecclesiastica né spogliato dei beni che ha amministrato male, ma è sempre castigato”.4
“Rendi conto della tua cattiva amministrazione…”. Un fulmine gli attraversa il cammino. Chissà, non avrà mai reso conto a nessuno durante la sua vita, magari non portava avanti niente con ordine. Per la prima volta, si vede nella circostanza di riconoscere l’esistenza di un padrone, davanti al quale deve rispondere dei suoi atti. Quanti di noi non fanno gli stessi erronei calcoli? Solo nell’ora del giudizio di Dio, realizziamo di essere semplici amministratori dei beni… Un giorno, a noi sconosciuto, ma non molto lontano, saremo dimessi dalla nostra amministrazione dei beni di questo mondo. Una volta resi i conti, quale sarà il nostro destino eterno?
“La stessa cosa ci dice il Signore tutti i giorni, presentandoci come esempio colui che, godendo di salute a mezzogiorno, muore prima di sera, e colui che esala l’ultimo respiro in una festa: così lasciamo l’amministrazione in vari modi. Il buon amministratore, che ha fiducia, sicuro della sua buona amministrazione, desidera dissolversi come San Paolo e stare con Cristo; mentre chi si attacca ai beni della Terra si trova pieno di angustia nell’ora estrema”.5
Coscienza della colpa
3 “L’amministratore disse tra sé: ‘Che farò ora che il mio padrone
mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare,
mi vergogno’”.
“L’amministratore non tenta neppure un’autodifesa. Ha la coscienza sporca e sa perfettamente che è vero ciò di cui è venuto a conoscenza il padrone”.6
Vediamo in questo versetto il ritratto di quelli che sono vissuti negligentemente nel corso dell’ esistenza terrena, proprio come afferma San Giovanni Crisostomo. Se questo amministratore fosse stato abituato al lavoro, non avrebbe avuto timore di essere mandato
via.
E noi? Potremo lavorare per la nostra salvezza dopo la morte? Come ci premuniamo di fronte a questo futuro?
Zelo del cattivo amministratore per garantire il suo futuro
4 “‘So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato
dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua’”.
Facendo dei monologhi, anche noi, in molte occasioni, prendiamo le nostre decisioni come lo ha fatto l’amministratore. Per soddisfare la sua pigrizia ed il suo orgoglio, evitando il lavoro e la mendicità, egli studia un mezzo efficace che, in funzione del suo cattivo carattere, ancora una volta non metterà in conto gli interessi del suo padrone, ma quelli del suo egoismo.
I commentatori utilizzano la reazione di questo cattivo amministratore per dimostrare come lui, avendo davanti agli occhi un fine molto chiaro – quello della propria sussistenza –, si sia messo immediatamente in azione ed abbia usato i mezzi per raggiungerlo. Disapprovando la sua rilassatezza morale, essi fanno un’applicazione al caso specifico della nostra salvezza eterna. Se avessimo una salda convinzione riguardo la nostra vita post-mortem, il fine ultimo della nostra esistenza, saremmo più diligenti nell’applicare i dovuti mezzi per ottenere la perpetua felicità.
Essi sottolineano in modo particolare la tenacia dell’amministratore nel raggiungere i suoi obiettivi e la prendono come esempio per noi “perché chiunque, prevedendo il suo fine, allevia con buone azioni il peso dei suoi peccati (perdonando chi è in debito con lui o facendo l’elemosina ai poveri), e dà generosamente i beni del padrone, acquista molti amici che dovranno prestare buona testimonianza a suo favore davanti al giudice, non con parole, ma manifestando le sue buone azioni, e contribuiranno a preparargli, con la loro testimonianza, la dimora della consolazione. Non vi è nulla che sia nostro, poiché tutto è di dominio di Dio”.7
La fretta di raggiungere obiettivi in questo mondo
5 “Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo:
‘Tu quanto devi al mio padrone?’ Quello rispose: ‘Cento barili d’olio’. 6 Gli disse: ‘Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta’. 7 Poi disse a un altro: ‘Tu quanto devi?’ Rispose: ‘Cento misure di grano’. Gli disse: ‘Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta’”.
Su quali sarebbero i debitori e la trasposizione di queste misurazioni agli usi di questa o di quella attualità, pullulano tra gli autori ipotesi e calcoli. Sul fatto che siano citati solo due debitori, né più né meno, a significare che dobbiamo acquistare molti amici, concordiamo con il celebre Maldonado , secondo cui, per la necessità di una sorta di schematizzazione, era più adeguato utilizzare una narrazione breve.8 Idem per quanto riguarda l’olio e l’aceto. Avrebbero potuto essere anche altri prodotti.
Riguardo alla differenza nelle riduzioni illecite, questa si deve più probabilmente al senso di opportunità dell’amministratore, il quale offriva ad ogni debitore il sufficiente per ottenere analoghi risultati.
Richiama l’attenzione la fretta dell’amministratore nel raggiungere la sua meta. Purtroppo, anche noi siamo spesso così, ossia, elaboriamo piani e con rapidità li realizziamo per i fini da conseguire in questo mondo, ma tutto diventa difficile e perfino insolubile, quando l’obiettivo è la nostra santificazione. Il nostro fine ultimo è il supremo in relazione agli altri, ma non sempre gli tributiamo l’importanza dovuta. Quanti di noi non preferiscono – proprio al contrario di questo amministratore – lasciare per domani la realizzazione dei propri propositi di santità? In gioventù, con fervore sognavamo di concretizzarli nella maturità, ormai tanto prossima. Entrando in questa, mai ci sembra che cammini a passi veloci verso il suo termine definitivo…
Vediamo, da questi versetti, quanto si impegna il tale amministratore nel concentrare i suoi sforzi per farsi amici compartecipi della sua frode, al fine di essere da loro appoggiato in futuro. Questo deve essere il nostro impegno nella ricerca dell’amicizia di Dio, dei giusti, dei casti, dei poveri, ecc.
Sagacità dei figli di questo mondo
8 “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva
agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro
pari sono più scaltri dei figli della luce”.
Arriva qui un altro versetto molto dibattuto tra gli autori. L’elogio del padrone della parabola non ricade sugli aspetti illeciti e immorali delle azioni praticate dal suo amministratore, ma soltanto sulla sua scaltrezza: “Si definiscono contraddittorie queste parabole affinché noi comprendiamo che – se poté essere lodato dal suo padrone l’uomo che defraudò i suoi beni – molto più devono essere graditi a Dio coloro che fanno opere seguendo i suoi precetti”.9
Per “figli di questo mondo” dobbiamo intendere coloro che si preoccupano soltanto dei beni temporali. I “figli della luce” credono nella vita eterna dopo la morte, nella resurrezione finale e lavorano per la propria salvezza. Quindi, la “prudenza” dei primi è infaticabile, solerte, pertinace, intelligente, abile al fine di raggiungere i propri obiettivi. Così dobbiamo essere noi rispetto al nostro fine ultimo, in questo consiste il consiglio implicito nella comparazione fatta da Gesù. Soltanto per evidenziare la chiarezza di comprensione, è bene sottolineare che i “figli della luce” sono inferiori molte volte in materia di prudenza, ma non in saggezza. 10
9 “Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza,
perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore
eterne”.
Questo versetto ha maggior ragione di continuità con i quattro successivi (10 a 13), di quanto ne abbia propriamente con quelli commentati fino a qui (1 a 8). Essi possiedono (9 a 13) uno stesso concetto teologico sulla ricchezza, mentre la parabola narrata anteriormente ricalca più l’importanza della sagacità e della prudenza da essere impiegate in vista della vita eterna. Si tratta, pertanto, di due considerazioni differenti che devono essere analizzate secondo le rispettive essenze.
Dio è il vero proprietario di tutto l’universo
10 “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è
disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. 11 Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui,chi vi darà la vostra? 13 Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona”.
Alcuni autori danno a questi quattro versetti il titolo di “appendici paraboliche sulle ricchezze”. Le tre massime in essi contenute sono di facile comprensione e ci risparmiano lunghe considerazioni.
È da notare che Gesù non condanna la proprietà, ma la considera come un bene da essere gestito temporaneamente in vista della vita eterna. L’uomo non figura che come semplice amministratore. Dio sì, è l’autentico proprietario. Se questa distinzione è ignorata dall’uomo, egli finisce per violare la supremazia di Dio come Signore di tutto il Creato, entrando, così, nell’ingiustizia.
“Le ricchezze esistenti su questa Terra non sono di possesso assoluto dell’uomo. Egli è l’amministratore di questi beni di Dio. Deve, dunque, esserGli fedele riguardo a questi. È l’espressione esterna della sua fedeltà. Così riceverà i ‘propri’ che, in questo contesto, per la contrapposizione stabilita, sembrano riferirsi a doni spirituali che Dio, a compensazione per questa fedeltà richiesta agli altri, concede in abbondanza al discepolo”.11
Le espressioni: “ricchezze vere” e “ciò che è vostro” si riferiscono ai beni soprannaturali, i doni della grazia, gli unici eterni e assoluti.
Quanto all’ultimo versetto, San Matteo lo colloca nel corso del Discorso della Montagna e con una formulazione quasi identica: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6, 24). Tanto in Luca come in Matteo, “si pone la tesi e si dà la ragione per cui non si può servire a due padroni: a Dio e alle ricchezze. Naturalmente, inteso nel senso di attaccamento o acquisizione o uso riprovevole di esse”.12
In questi versetti finali (9 a 13), il Divino Maestro si manifesta come l’Araldo del distacco da tutto quanto succede. Non è illecito custodire i beni in una cassa, ciò che non possiamo fare è tesaurizzarli nei nostri cuori.
1) MALDONADO, SJ, Juan de. Comentarios a los cuatro Evangelios. Evangelio de San Marcos y San Lucas. Madrid: BAC, 1951, v.II, p.673. 2) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO. Catena Aurea. In Lucam, c.XVI, v.1-7. 3) TEOFILO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit. 4) MALDONADO, op. cit, p.675. 5) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, op. cit. 6) CANTALAMESSA, OFMCap, Raniero. Echad las redes. Reflexiones sobre los Evangelios. Ciclo C. Valencia: Edicep, 2003, p.306. 7) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, op.cit. 8) Cfr. MALDONADO, op. cit., p.675. 9) SANT’AGOSTINO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., v.8-13. 10) Cfr. ORIGENE, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., v.8-13.
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