In quel tempo, 35 si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendoGli: “Maestro, vogliamo che Tu faccia per noi quello che Ti chiederemo”. 36 Egli disse loro: “Che cosa volete che Io faccia per voi?” 37 Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. 38 Gesù disse loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che Io bevo, o essere battezzati nel Battesimo in cui Io sono battezzato?” 39 Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse loro: “Il calice che Io bevo anche voi lo berrete, e nel Battesimo in cui Io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a Me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. 41 Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42 Allora Gesù li chiamò a Sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43 Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44 e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45 Anche il Figlio dell’Uomo infatti non è venuto per farSi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 35-45).
C’è vita senza sofferenza?
È possibile vivere senza sofferenza? Non sarebbe questa la vita ideale cui aspirare? Per raggiungere quest’obiettivo, non sarebbe meglio fuggire sempre dalla croce e cercare di soddisfare in tutto il nostro egoismo? La vita senza dolore è utopia, pura illusione. E la peggior sofferenza per l’uomo è quella di non soffrire ordinatamente, in ragione di una finalità che giustifichi la sua vita.
I – La “teologia della sofferenza”
E frequente incontrare, nelle persone che cominciano ad aprire gli occhi allo studio della Religione, manifestazioni di un’indignata reazione analoga a quella di Clodovèo, re dei Franchi, udendo il racconto della Morte del Signore Gesù: “Ah! Se ci fosse stato io là con i miei franchi”.1 Costa immaginare come ha potuto il Divino Salvatore, la Somma Bontà, esser ucciso in maniera così ingiusta e crudele, senza che nessuno, nemmeno uno dei numerosi beneficiati dai suoi miracoli, si presentasse a difenderLo.
La risposta a questa difficoltà, la troveremo nella Liturgia di questa domenica, la quale tratta di quello che si potrebbe denominare la “teologia della sofferenza”.
Tramite la sofferenza, si giunge alla “conoscenza” perfetta
Il profeta Isaia mostra che Nostro Signore ha patito quanto era possibile, per redimere il genere umano,2 nella prima lettura: “Al Signore è piaciuto prostrarLo con dolori. Quando offrirà Se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e Si sazierà della sua conoscenza; il Giusto mio Servo giustificherà molti, Egli Si addosserà la loro iniquità” (Is 53, 10-11).
Nei divini arcani, piacque al Padre permettere che il Figlio, il Servo di Yahweh, fosse prostrato “con dolori”, macerato, secondo la traduzione liturgica del Brasile. Espressione categorica che significa macinare il grano o pestare l’uva nella pigiatrice. Come passò Lui per questa macerazione? Sereno, tranquillo, sopportando tutto come un agnello, senza nessuna lamentela, con totale pazienza e sottomissione ai disegni del Padre. Con questo, insegna San Tommaso, “ha meritato la gloria dell’esaltazione per l’abbattimento della Passione”.3 Per la via della sofferenza, spiega il profeta, Gesù “vedrà la luce e Si sazierà della sua conoscenza”. Ora, che cosa avrebbe potuto Nostro Signore ricevere che ancora non avesse? Egli è Dio, pertanto, la Conoscenza e la Verità in sostanza! A quale “conoscenza” fa riferimento Isaia?
In Gesù Cristo possiamo distinguere quattro conoscenze: quella divina, poiché Egli è Dio; quella beatifica, decorrente dal fatto che la sua Anima è stata creata nella visione beatifica; la scienza infusa, ricevuta nell’istante della sua concezione umana; e quella sperimentale, nella sua umanità, l’unica passibile di aumento, poiché “era esercitata nelle condizioni storiche della sua esistenza nello spazio e nel tempo”,4 nella misura in cui Egli veniva a contatto con le cose.
Nella sua vita terrena, per meritare la propria conoscenza e, ancor più, acquistare la conoscenza per gli altri, Gesù doveva patire. Egli confermava con la conoscenza sperimentale quello che già sapeva con le altre tre, raggiungendo così la “conoscenza” perfetta a partire dalla vita del dolore.
Per la via della sofferenza, si giunge alla perfezione
In questo modo, Isaia ci mostra quanto è per la via della sofferenza che, a imitazione del Messia, si giunge alla perfezione. Si vede, di conseguenza, che il dolore ben accetto è l’unica maniera di attrarre le benedizioni divine per la perpetuità di un’opera soprannaturale. Non c’è altra via! Gesù ci ha indicato soltanto un cammino per seguirLo: prendere la croce (cfr. Mc 8, 34), attraverso la quale compiamo la volontà del Signore.
Ora, la nostra natura è contraria alla croce, ha un vero panico della sofferenza e l’istinto di conservazione ci porta a fuggire dal dolore. Questa situazione, così comune alla condizione umana, ci è presentata dal Vangelo della 29ª Domenica del Tempo Ordinario, analizzato nella sua profondità.
II – L’ultima salita a Gerusalemme
Il Divino Redentore sta salendo a Gerusalemme per l’ultima volta. Gli Apostoli hanno tentato di dissuaderLo, adducendo che metteva a rischio la sua vita (cfr. Gv 11, 7-8), a seguito del tremendo odio delle autorità religiose contro di Lui. Tuttavia il Maestro è deciso. Essi rimangono, allora, tra l’insicurezza dell’istinto di conservazione – poiché s’interessavano certamente di Gesù, ma anche temevano per la propria vita – e la fiducia in quel potere misterioso manifestato da Lui in tante circostanze.
Infatti, gli Apostoli avevano difficoltà a intendere la possibilità della Morte di Gesù. Immaginavano un Messia in accordo con l’intelligenza speculativa loro, con una perfezione secondo i loro criteri umani, che avrebbe dovuto assumere il governo politico della nazione. Ritenevano che Nostro Signore non sarebbe potuto morire, poiché, mediante gli straordinari poteri con cui guariva e resuscitava, aveva mezzi per vivere indefinitamente, e in questo modo organizzare un regno terreno senza uguali.
Tuttavia, i pensieri e le vie del Salvatore erano ben altri, e andavano in direzione opposta. Lungo il percorso, rivelò loro con tutta chiarezza quello che sarebbe accaduto: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’Uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; Lo condanneranno a morte, Lo consegneranno ai pagani, Lo derideranno, Gli sputeranno addosso, Lo flagelleranno e Lo uccideranno; e dopo tre giorni risorgerà” (Mc 10, 33-34). Più esplicito di così Egli non poteva essere!
Subito dopo questa rivelazione, sembrando far astrazione completa da quanto avevano appena ascoltato, i fratelli Giacomo e Giovanni formulano a Gesù una richiesta di un’arditezza sorprendente. Osserva, a questo proposito, Lagrange: “Pare, infatti, che la lezione sulle sofferenze non abbia ancora causato una seria impressione sui discepoli; non sospettano quale sia la loro finalità nell’opera messianica. Forse credono anche che il Maestro Si lasci erroneamente impressionare. In qualsiasi modo, però, Egli stesso ha parlato di Resurrezione. Tutto il resto non è altro che un episodio sul quale il loro pensiero scivola per fermarsi in questa gloria”.5
Una richiesta spropositata accolta con bontà
In quel tempo, 35 si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendoGli: “Maestro, vogliamo che Tu faccia per noi quello che Ti chiederemo”.
Essi espongono questa richiesta a Nostro Signore con ogni fiducia e intimità, davanti agli altri. Si direbbe sia una richiesta spropositata, fatta in modo poco educato e del tutto inadeguato. Pertanto, riunirebbe le condizioni per non essere esaudita. Sorprendente, invece, sarà la reazione del Divino Maestro.
36 Egli disse loro: “Che cosa volete che Io faccia per voi?”
Sebbene conoscesse molto bene la loro intenzione, il Signore li accoglie con bontà, mostrandoSi disposto a esaudirli. Ossia, persino delle richieste apparentemente assurde, Dio le considera con benevolenza. Perché? Perché è tale il suo desiderio di facilitarci le vie della salvezza che, anche quando ci comportiamo in maniera sconveniente, Egli ci riceve come un Padre insuperabile.
Chiedono una gloria umana, ricevono la felicità eterna
37 Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.
Nel leggere questo versetto oggi, quasi a duemila anni di distanza dal fatto, rimaniamo stupiti: come sono arrivati a procedere in questo modo San Giacomo e San Giovanni? Si resta sconcertati. Si capisce che entrambi stessero supponendo una gloria terrena, con Nostro Signore divenuto re di Israele, ossia, la gloria di un Messia umano che conquista il potere politico, sociale e finanziario della nazione eletta. Avevano l’impressione che questo non fosse lungi dall’accadere, e approfittando la loro condizione di parenti del Messia, calcolavano di poter ottenere buoni posti, per i principi del nepotismo.
Ora, la cosa più impressionante è che Gesù, in un certo senso, Si dispone a esaudirli, concedendo non quello che pretendevano, ma molto di più: la felicità eterna nel Cielo. Nostro Signore trasferirà la loro richiesta dalla Terra alla gloria celeste, dandogli “il regalo di questa enorme grazia che è l’amore della croce”.6
Nostro Signore vuole sempre darci il meglio
38a Gesù disse loro: “Voi non sapete quello che chiedete”.
Alcuni ritengono che in questo versetto sia condannato qualsiasi desiderio di preminenza, ma non c’è nella risposta di Nostro Signore la base per questa interpretazione. Egli fa capire che i due fratelli stanno chiedendo poca cosa. La loro natura umana è avida di glorie mondane, passeggere, mentre il Maestro li vuole invitare a quelle celesti, eterne. Per questo, non nega la richiesta, la cui vera dimensione essi ignorano. Essi non sapevano quello che stavano chiedendo perché equivocavano quanto al genere di onore desiderato. Questo mostra che è legittimo aspirare a una proporzionata grandezza terrena – purché essa sia utile alla santificazione di chi chiede e degli altri –, poiché, insegna San Tommaso che, per quanto riguarda i beni temporali, “il Signore non ha proibito la sollecitudine necessaria, ma la sollecitudine disordinata”.7
Il calice del dolore
38b “Potete bere il calice che Io bevo, o essere battezzati nel Battesimo in cui Io sono battezzato?”
La risposta del Redentore denota che i figli di Zebedeo ignorassero il cammino per arrivare a questa gloria che ambivano, ma Nostro Signore voleva darla sul piano soprannaturale: “Invece di censurare fin dall’inizio l’ambizione dei due fratelli, Gesù Si impegna a correggere l’idea falsa che essi hanno della sua missione”.8
Ben conosceva il nostro Salvatore quanto Egli avrebbe dovuto patire, per questo menziona il calice e il Battesimo di sangue, entrambi simboli della sofferenza.9 E ancora nell’Orto degli Ulivi arriverà a chiedere: “Abba, Padre! Tutto è possibile a Te: allontana da Me questo calice! Però non ciò che voglio Io, ma ciò che vuoi Tu” (Mc 14, 36). Così, Egli chiede a San Giacomo e a San Giovanni se sono preparati a bere il calice che la prima lettura descrive come del dolore, della sofferenza, del dramma. E il Battesimo di sangue corrisponderebbe alla Passione dell’Agnello: “Gesù parla dell’immersione come se Egli dovesse esser sprofondato in un abisso di tormenti”.10
Cecità di fronte alla prospettiva del dolore
39a Gli risposero: “Lo possiamo”.
I due fratelli supponevano, senza dubbio, che il calice e il Battesimo cui Nostro Signore alludeva, rappresentassero le difficoltà da superare per raggiungere la gloria temporale immaginata da loro, pertanto, valesse la pena affrontare… Probabilmente ritenevano nel loro ottimismo anche che questo Battesimo fosse un onore e un prestigio.
Ora, questo equivoco è frutto dell’incomprensione dell’ammonimento di Gesù riguardo alla sua Passione e Morte, che Egli aveva già menzionato tre volte, dando anche dettagli dei tormenti che avrebbe patito (cfr. Mc 8, 31-32; 9, 31; 10, 33-34). Allo stesso tempo, diventavano sempre più chiare le minacce che questo diventasse effettivo (cfr. Gv 10, 31-40; 11, 49-54).
Succede che gli Apostoli, nella loro cieca speranza di felicità mondana, si ostinassero all’idea del Messia temporale. Davano a queste previsioni del Divino Maestro il valore di un linguaggio simbolico, forse credendo che, alla fine, Egli avesse dato un colpo qualsiasi e sarebbe stato proclamato re d’Israele, in qualità di discendente di Davide. Per questo, Giacomo e Giovanni rispondono con animo alla domanda di Nostro Signore: “Lo possiamo”.
I piani di Dio sono inalterabili
39b E Gesù disse loro: “Il calice che Io bevo anche voi lo berrete, e nel Battesimo in cui Io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a Me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Alla domanda formulata su un piano meramente naturale e secondo un criterio errato, Gesù replica a partire da una prospettiva soprannaturale: da tutta l’eternità Dio Padre ha scelto il posto di ognuno secondo il suo piano sapienziale. Pertanto, sebbene fosse legittimo il desiderio dei figli di Zebedeo, era necessario prima di tutto fare la volontà del Padre.
Infatti, le parole del Maestro sui due fratelli furono confermate: la Storia ci narra che San Giacomo fu il primo Apostolo a bere il calice del martirio, a Gerusalemme, verso l’anno 44 (cfr. At 12, 1-2). Quanto a San Giovanni, consta sia morto di morte naturale, molto vecchio, intorno all’anno 104. Il Discepolo Amato non evitò di “bere il calice”, poiché fu l’unico Apostolo a seguire da vicino la Passione del Signore e a soffrire vicino a Lui; e, secondo un’antichissima tradizione, sarebbe stato gettato più tardi in una vasca di olio bollente, uscendone miracolosamente il leso.11 Pertanto, in entrambi si realizzò la predizione di Gesù: essi bevvero il calice e passarono per il Battesimo di sangue.
Le dispute nel Collegio Apostolico prima di Pentecoste
41 Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.
A una certa distanza, gli altri Apostoli seguivano con attenzione il dialogo, e s’indignarono udendo la richiesta dei due fratelli. Certamente, non per vero zelo riguardo a Gesù, ma, forse, perché ognuno si riteneva più degno di ricevere l’anelato tributo d’onore. In fin dei conti, desideravano anche loro partecipare alla disputa. Questo rende evidente quanto queste dodici magnifiche colonne sulle quali si sarebbe costruito il sacro edificio della Chiesa avessero, prima della discesa dello Spirito Santo, una visione umana e politico-sociale di Gesù Cristo e stavano con gli occhi puntati sulla conquista del potere temporale.
42 Allora Gesù li chiamò a Sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono”.
Con questo riferimento ai governanti dell’epoca, Cristo ammoniva i suoi Apostoli che chi desidera la gloria mondana e assume il potere per amor proprio, finisce per essere un tiranno. Infatti, senza l’aiuto della grazia e la pratica della virtù, la tendenza del potente è di opprimere i sottoposti. Ed essendo stati i Giudei schiavizzati diverse volte, essi portavano le cicatrici di amare esperienze…
Il criterio di precedenza tra i buoni
43 “Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44 e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”.
Tra i buoni, quale deve essere il criterio di precedenza? Nostro Signore insisterà per due volte che è quello della sottomissione: esser servitore ed esser schiavo. Entro l’istituzione che Egli sta fondando, si deve imparare a servire: chi più serve, più grande sarà; e chi meno serve, minore sarà. Quello che qualifica per il Regno di Dio è la disposizione a servire.
Lui non condanna, dunque, il desiderio di essere il primo nella linea del bene, quanto il mezzo errato di arrivare a questa posizione. “Egli non Si stupisce della preoccupazione dei discepoli, e non contesta il principio della gerarchia, ma insinua lo spirito nuovo del quale deve essere animato chi ha responsabilità di direzione”.12 Il cammino, questo sì, è quello il cui esempio è stato dato da Lui stesso: servizio e schiavitù.
L’esempio del Figlio dell’Uomo
45 “Anche il Figlio dell’Uomo infatti non è venuto per farSi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Già durante l’infanzia, Gesù Si posò nella più piena soggezione e a servizio di Maria Santissima e di San Giuseppe, pur essendo Dio e il Creatore di entrambi. Più ancora, Si pose in sottomissione di quanti avevano bisogno di Lui, per non dire di tutto il genere umano che Egli avrebbe redento sulla Croce.
Questa è la via attraverso cui Egli riscatta e ordina tutta la creazione. Infatti, insegna l’Apostolo che “quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste perdono” (Eb 9, 22). Cristo è venuto per perdonarci e salvarci, per servirci e sacrificare la vita per noi. E nel Cielo, poiché sta nella nostra natura più vicino al trono del Padre, è sempre disposto ad aiutarci.
III – La necessità dello Spirito Santo nella Chiesa
Prima di Pentecoste, possiamo distinguere due conversioni negli Apostoli.
La prima è avvenuta quando, chiamati da Gesù, si disposero a seguirLo.13 Tuttavia, avevano ancora l’idea di un Messia temporale, comune a tutti i Giudei in quel tempo, soprattutto quelli formatisi nella scuola dei farisei. Gli Apostoli, sebbene vari di loro fossero stati orientati e preparati da San Giovanni Battista, conservavano una concezione riguardo al Regno di Dio interamente terrena, secondo i principi farisaici. Ritenevano di aver incontrato il liberatore di Israele, che servivano in modo non interamente disinteressato.
La seconda conversione si operò quando, riconosciuta la propria miseria per aver abbandonato il Divino Maestro nell’ora della Passione, ricevettero una speciale grazia di pentimento e cominciarono a considerarLo nel mistero ineffabile della Croce.14 Tuttavia continuavano a considerare da una prospettiva umana il Messia, al punto che non credettero, in un primo momento, alla sua Resurrezione (cfr. Lc 24, 9-12). Nell’ora dell’Ascensione del Signore manifestarono ancora il loro desiderio di veder restaurato il regno di Israele, secondo questo concetto sbagliato (cfr. At 1, 6-7).
L’assurdo di voler adattare
Dio alla nostra mentalità Siccome gli Apostoli cercavano costantemente di conformare alla loro mentalità precedente le rivelazioni straordinarie fatte da Nostro Signore, rimasero con una visione distorta della Buona Novella fino al giorno della discesa del Paraclito, nel Cenacolo. Lì lo Spirito Santo assunse le virtù che erano state infuse nelle loro anime, e fece in modo che i doni, che erano passivi come un lampadario spento, si accendessero con tutte le energie possibili. Solamente con l’azione di questi doni le virtù infuse trovano le condizioni giuste pei raggiungere il loro pieno e perfetto sviluppo. Possiamo, così, apprezzare l’incommensurabile portata, per la vita della Chiesa, dell’operare dello Spirito Santo, che San Cirillo di Gerusalemme denomina “il guardiano e santificatore della Chiesa, il direttore delle anime, il pilota delle navi nella tempesta, Colui che illumina coloro che si sbagliano, premia i combattenti e incorona i vincitori”.15
Insomma, con l’effusione delle grazie di Pentecoste, morì nell’anima degli Apostoli questa visione umana riguardo Nostro Signore. Tuttavia, sotto apparenze diverse, essa continua lungo la Storia ed è possibile anche che nella nostra anima si trovino rudimenti di essa, come un verme che ci corrode dentro, muovendoci ad agire in tutto per egoismo, per puro interesse personale, considerando la Religione in una prospettiva sociale e politica.
Necessità della sofferenza per raggiungere la gloria
Analizzando la Liturgia di oggi, vediamo che, per i buoni, il vero e unico trionfo si trova nell’amore della croce e nell’accettazione della sofferenza. Nella seconda lettura (Eb 4, 14-16), ci insegna San Paolo: “non abbiamo un Sommo Sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: Egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4, 15), che intercede per noi e al quale, pertanto, dobbiamo approssimarci con totale fede e fiducia.
Non è facile questa via indicata da Nostro Signore, ma ricordiamoci del famoso verso di Corneille: “À vaincre sans péril, on triomphe sans gloire”.16 Quando si vince senza passare per pericoli e rischi, non c’è gloria. Afferma Sant’Agostino: “Nessuno può riconoscersi finché non è tentato; allo stesso modo che nessuno potrà essere incoronato se non dopo la vittoria, vittoria che non ci sarebbe se non ci fossero la lotta contro un nemico e le tentazioni”.17 Ora, questa vittoria è riservata solamente alle anime unite a Dio, che ripongono la loro fiducia in Lui e riescono così ad affrontare tutti i rischi.
Per la nostra natura, per il nostro ottimismo nei confronti della vita e orrore verso la sofferenza, abbiamo l’illusione che trionfare significhi non soffrire mai né passare per sventura alcuna. Non è quello che ci mostra la dura esistenza terrena. Per questo, afferma il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira: “La vita della Chiesa e la vita spirituale di ogni fedele sono una lotta incessante. Dio dà a volte alla sua Sposa giorni di una grandezza splendida, visibile, palpabile. Egli dà alle anime momenti di consolazione interiore o esteriore mirabili. Ma la vera gloria della Chiesa e del fedele risulta dalla sofferenza e dalla lotta. Lotta arida, senza bellezza sensibile, né poesia definibile. Lotta in cui si avanza a volte nella notte dell’anonimato, nel fango del disinteresse o dell’incomprensione, sotto la tempesta e il bombardamento scatenato dalle forze congiunte del demonio, del mondo e della carne. Ma lotta che riempie di ammirazione gli Angeli del Cielo e attira le benedizioni di Dio”.18
Come il carbone, per trasformarsi in diamante, deve esser sottoposto alle altissime temperature e pressioni incontrate nelle viscere della Terra, le nostre anime hanno bisogno della sofferenza, in questa valle di lacrime, per meritare la gloria celeste. E per ben sopportare i patimenti che ci aspettano, facciamo, per intercessione della Beata Vergine Maria, la richiesta contenuta nel Salmo Responsoriale di oggi: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da Te noi speriamo” (Sal 32, 22).
1) FRÉDÉGAIRE, III, 21, apud KURTH, Godefroid. Clovis. Paris: Jules Taillandier, 1978, p.297. 2) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. III, q.46, a.5; a.6. 3) Idem, a.1. 4) CCE 472. 5) LAGRANGE, OP, Marie-Joseph. Évangile selon Saint Marc. 5.ed. Paris: Lecoffre; J. Gabalda, 1929, p.277-278. 6) GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald. El Salvador y su amor por nosotros. Madrid: Rialp, 1977, p.494. 7) SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., I-II, q.108, a.3, ad 5. 8) LAGRANGE, op. cit., p.278. 9) Cfr. FILLION, Louis-Claude. La Sainte Bible commentée. Paris: Letouzey et Ané, 1912, t.VII, p.251. 10) LAGRANGE, op. cit., p.278. 11) Cfr. RICCIOTTI, Giuseppe. Vita di Gesù Cristo. 14.ed. Città del Vaticano: T. Poliglotta Vaticana, 1941, p.164-165, nota 1. 12) LAGRANGE, op. cit., p.244-245. 13) Cfr. GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald. Las conversiones del alma. Madrid: Palabra, 1981, p.60-61. 14) Cfr. Idem, p.61-64. 15) SAN CIRILO DI GERUSALEMME. Catequesis XVII, n.13. In: Catequesis. Madrid: Ciudad Nueva, 2006, p.400-401. 16) CORNEILLE. Le Cid. Acte II, Scène II, v.434. In: Œuvres Complètes. Paris: Du Seuil, 1963, p.226. 17) SANT’AGOSTINO. Enarratio in psalmum LX, n.3. In: Obras. Madrid: BAC, 1965, v.XX, p.519. 18) CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Ambientes, Costumes, Civilizações: A verdadeira glória só nasce da dor. In: Catolicismo. Campos dos Goytacazes. Anno VII. N.78 (Giu., 1957); p.7.
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