In quel tempo, 1 Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli Lo seguirono. 2 Giunto il sabato, Si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove Gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che Gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3 Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” Ed era per loro motivo di scandalo. 4 Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. 5 E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6 E Si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando (Mc 6, 1-6).
Stupirsi, che gioia!
Illuso, l’uomo cerca la felicità nei sentieri dell’egoismo, ritenendo di poter esser tanto più felice quanto più pensa a sé. Egli ignora che la vera gioia dell’anima si trova solamente nello stupore, nell’estasiarsi per ciò che è superiore.
I – Il profeta, uomo che commuove le coscienze
Creandoci, Dio aveva come finalità la nostra partecipazione alla sua felicità eterna. Per questo, non ci abbandona in nessun istante, veglia sempre su ognuno come se fosse suo figlio unico. La cura che ha una madre amorevole verso il proprio bambino, per esempio, che tutti commuove, non è che un bello, ma pallido simbolo dell’amore divino.
Così, creati per un’eternità beata, abbiamo impressa nella nostra anima la legge naturale – che ci ordina di fare il bene ed evitare il male – e stiamo ricercando costantemente Dio, come le piante che, per l’eliotropismo, cercano sempre la luce del Sole. Per aiutarci in questo “teotropismo”, Dio, attraverso una persona o qualche circostanza, ci stimola a cercarLo con più zelo e amore. Tale ruolo lo hanno svolto fin dall’Antica Legge i profeti.
La voce del profeta, ausilio di Dio affinché raggiungiamo la nostra finalità
La nozione corrente di profeta si limita a quella di uno con capacità di prevedere il futuro. Invece, è importantissimo sottolineare che, sebbene spesso questo sia uno dei suoi tratti distintivi, tuttavia non è il principale e nemmeno costituisce l’essenza della sua missione. La principale funzione profetica consiste nell’essere la guida del popolo di Dio, indicando le vie della salvezza.
Storicamente, essendo stata la classe sacerdotale giudaica infedele alla sua missione, “si è resa necessaria l’irruzione, nella società israelita, di quei colossi di spiritualità denominati profeti – provenienti, in maggioranza, dall’elemento secolare della nazione – per sanare religiosamente Israele. […] I valori spirituali della Legge acquisiscono allora il loro vero rilievo, e tale è stata l’altezza morale della predicazione profetica da essere superata solo dall’ideale evangelico”.1
È quello che vediamo nella prima lettura (Ez 2, 2-5) di questa domenica: Dio invia Ezechiele come profeta per mettere sull’avviso quegli uomini testardi e di cuore indurito che hanno deviato dalla retta via: “Figlio dell’uomo, Io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di Me. […] Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. […] Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genia di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro” (Ez 2, 3-5).
Ossia, Israele si era ribellata contro Dio, ed invece del castigo, per misericordia, a questo popolo è stato inviato un profeta, un portavoce che trasmette la volontà divina ammonendo contro le deviazioni commesse e chiamando alla penitenza. Per questo, non potranno gli Israeliti addurre all’attenuante dell’ignoranza, dell’inavvertenza, poiché “un profeta si trova in mezzo a loro”.
Dinanzi al profeta, sottomissione o rivolta
Ci insegna la dottrina cattolica che con il Battesimo partecipiamo tutti “del sacerdozio di Cristo, della sua missione profetica e regale”.2 Così, come battezzati, siamo profeti davanti alla società, poiché dobbiamo, con l’esempio di vita, testimoniare la vera Fede, indicando il cammino per la salvezza eterna e, se necessario, ammonendo contro gli errori. Se questo si applica a ogni fedele laico, a fortiori, il sacerdote che parla dal pulpito, ricordando le verità eterne, esercita la missione profetica.
Ora, come, molte volte, a causa delle nostre miserie non siamo docili alla voce della coscienza – che opera dentro di noi, come un profeta a ricordarci il dovere – e creiamo sofismi per soffocarla, così può anche succedere che ci irritiamo con chi nei nostri riguardi esercita il ruolo profetico e ci lancia giustamente invettive. Infatti salvo una grazia, in generale la tendenza dell’uomo quando viene ammonito è la rivolta interiore.
È quello che succede quando, ascoltando un sermone o facendo una lettura spirituale, sentiamo il pungolo della coscienza contro un vizio o difetto e, per attaccamento a questo, non vogliamo dare ascolto né assenso alla voce della grazia.
Questa triste situazione dell’anima, più comune di quello che si possa immaginare, trova il suo archetipo nel Vangelo scelto dalla Liturgia di questa domenica: è il Profeta per eccellenza, Gesù Cristo, venuto adannunciare la Buona Novella e ad indicare il Cammino che è Egli stesso, “per la caduta e la risurrezione di molti in Israele” e “un segno di contraddizione” affinché siano “svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 34-35).
II – Reazione dello spirito umano di fronte alla superiorità
In quel tempo, 1 Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli Lo seguirono. 2a Giunto il sabato, Si mise a insegnare nella sinagoga.
A Nazareth, il Signore Gesù è vissuto per circa trent’anni, dal ritorno dall’Egitto, dopo la morte di Erode (cfr. Mt 2, 15.23), fino all’inizio della sua vita pubblica con il Battesimo nel Giordano (cfr. Mt 3, 13-17). In questo luogo non Si era mai manifestato come Dio, ma solo come il figlio di Giuseppe e di Maria; una persona comune, pertanto.
Ad un certo punto, Egli scomparve e a Nazareth arrivavano soltanto gli echi dei suoi grandiosi miracoli. La Galilea era certamente in subbuglio per le ripercussioni relative ai fatti di Gesù, come la resurrezione della figlia di Giàiro e la guarigione dell’emorroissa, realizzate poco prima come racconta San Marco (cfr. Mc 5, 22-42), e tante altre azioni straordinarie. Dovevano anche aver sentito parlare delle meravigliose e inedite dottrine predicate dal Divino Maestro, come pure delle incantevoli parabole che tanto entusiasmavano gli uomini di buona fede.
Tuttavia, si può supporre, da un lato, che lo scetticismo fosse una reazione non rara di fronte a questi racconti, poiché alla natura umana costa dar credito a qualcosa di notevole collegato a chi partecipa al nostro vivere quotidiano. Ma, d’altro lato, in un certo modo gli abitanti di Nazareth provavano orgoglio, perché la loro cittadina stava acquisendo celebrità in virtù del Nazareno.
In queste circostanze, Gesù arriva nella sua terra. Possiamo immaginare il mormorio provocato nel vederLo entrare nella sinagoga, dove non aveva mai predicato, e cominciare a commentare la Scrittura in un modo mai udito prima.
Stupore, primo movimento di fronte alla superiorità
2b E molti, ascoltando, rimanevano stupiti…
San Luca aggiunge importanti particolari relativi a questo episodio. Invitato a parlare,
Gesù ha aperto il libro del profeta Isaia dove è scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4, 18). Subito dopo, ha affermato: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (4, 21). E l’Evangelista conclude: “Tutti Gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (4, 22).
La prima reazione, pertanto, è stata di stupore generale, talmente ricche, dense e originali devono esser state le parole proferite dal Salvatore, certamente non registrate nella loro totalità dall’Evangelista. Infatti, è questo il primo movimento di ogni creatura umana nel suo relazionarsi sociale, quando incontra qualcuno che spicca per una qualche ragione. In seguito, però, in virtù dell’istinto di socievolezza che ci spinge a entrare in contatto con gli altri, l’inevitabile tendenza naturale è il confronto: “Saremmo anche noi in grado di realizzare la medesima cosa?”. Il tenore affermativo o negativo della risposta determinerà come conseguenza immediata una reazione interna di gioia o di tristezza.
In caso affermativo, restiamo soddisfatti perché ci riteniamo capaci di uguagliare, o persino superare, l’altro. E possiamo assumere due atteggiamenti. Uno buono, di comprendere che si tratta di un dono gratuito di Dio – poiché lo Spirito Santo opera “distribuendole a ciascuno come vuole” (I Cor 12, 11) –, e abbiamo il dovere di utilizzarli per aiutare gli altri a santificarsi, come insegna l’Apostolo: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (I Cor 12, 7). E un’altra cattiva, di orgoglio, disprezzando il valore altrui.
In caso negativo, sentiremo tristezza nel constatare la nostra inferiorità. E anche qui sono possibili due atteggiamenti. Il primo, buono, consiste nell’oltrepassare questa istintiva tristezza e ammirare la qualità dell’altro, incantandoci per la sua superiorità. La seconda, cattiva, è avere un certo risentimento, conseguenza dell’invidia di fronte al valore altrui.
I due atteggiamenti buoni ci portano pace nell’anima, poiché propiziano il riconoscimento della grandezza del Creatore attraverso i suoi riflessi nelle persone. Così procede chi si abitua a considerare gli aspetti della vita quotidiana elevandosi a partire da loro a superiori riflessioni. Sono coloro che, nel passo successivo allo stupore, sono sempre desiderosi di lodare, stimare e servire quello che è buono, vero e bello.
Ora, data la natura umana decaduta, senza l’ausilio della grazia, le reazioni successive al confronto sono comunemente negative. Un archetipico esempio di ciò, lo troviamo nei versetti seguenti, nei quali l’Evangelista riassume la reazione dei nazareni di fronte alla predicazione di Gesù.
La conseguenza dell’egoismo
2c …e dicevano: “Da dove Gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che Gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3 Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” Ed era per loro motivo di scandalo.
Nella città di Nazareth, ad eccezione della Madonna, non ci fu chi avesse assunto
l’atteggiamento corretto per ammirare la superiorità di Gesù. Dopo la prima reazione buona, essi cominciarono a considerare soltanto gli aspetti umani, e presto sorsero i dubbi di malafede, seguiti dall’invidia.
Gli uni si chiedevano da dove provenisse tanta conoscenza, visto che il Predicatore non aveva studiato con nessuno dei maestri conosciuti nella regione. Tra questi, alcuni addirittura avrebbero potuto esser presenti nella sinagoga in quel momento, e considerare intollerabile che Gesù li superasse nel sapere, proprio loro che tanto avevano studiato.
E, chissà, si saranno chiesti quali potevano essere stati i trucchi utilizzati dal giovane Maestro per acquisire una così grande conoscenza in un breve lasso di tempo. Vi era in loro un misto di invidia unito ad un fondo di mancanza di fede, nel voler giudicare le cose per la loro prima apparenza. Non hanno saputo trascendere la figura del figlio del falegname, che era vissuto lì tanti anni esercitando un lavoro artigianale, in una situazione interamente ordinaria e che, all’improvviso, era sorto come saggio, taumaturgo ed esorcista.
Allo stesso tempo, non potevano negare che fossero veri gli strepitosi miracoli attribuiti al Redentore, ma, nella loro cecità spirituale, preferivano chiudere gli occhi alla realtà superiore, e rifugiarsi in una spiegazione naturale, che non implicava per loro un cambiamento di vita.
“Ed era per loro motivo di scandalo”. È il disprezzo la conseguenza necessaria della mancanza d’amore e dell’invidia. Con severità San Basilio lancia invettive contro questo difetto dell’anima: “L’invidia è un genere di odio, il più feroce, perché i benefattori pacificano coloro che per un’altra causa sono nemici nostri, ma il bene che si fa all’invidioso lo irrita di più; e quanto più egli riceve, più si indigna, si intristisce e si esaspera. Questo perché il disgusto che sente per il potere del benefattore è maggiore della gratitudine per i beni che da lui riceve. […] I cani diventano mansueti se si dà loro da mangiare; i leoni si addomesticano, quando ci si prende cura di loro; ma gli invidiosi diventano più furenti con i benefattori”.3
Il pericolo di non vedere il sublime
4 Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
Precedentemente, San Marco riferisce di alcuni parenti di Gesù che si vergognavano di Lui, al punto che, una volta, “uscirono per andare a prenderLo; dicevano infatti: ‘È fuori di Sé’” (Mc 3, 21).
Senza dubbio, nell’assemblea si trovavano vari suoi familiari, soprattutto se si tiene conto di quanto fosse piccola la città. Magari essi stessi si paragonavano a Gesù, immaginando di essere a Lui equivalenti data la consanguineità. Constatando, però, la loro evidente inferiorità, nasceva l’invidia e il desiderio di distruggere il bene visto nell’altro, ritenendo che questi facesse loro ombra. La natura umana è tale che, in genere, la persona non ha invidia di uno sconosciuto, ma dell’amico, di quello con cui convive. Per questo, a somiglianza di Nostro Signore, chi abbraccia le vie della virtù può esser molto ben considerato in alcuni ambienti, ma non sempre lo sarà tra i suoi intimi.
La divinità di Nostro Signore doveva trapelare
Assueta vilescunt – la routine può finire per avvilire persino le cose più grandiose. Ora, Gesù, Dio e Uomo vero, Si trovava dove aveva vissuto per tanto tempo come persona comune, desideroso di fare il bene ai suoi più prossimi.
Non possiamo credere, però, che il convivio con Lui non avesse dato occasione al trapelare di qualcosa fuori del comune in innumerevoli occasioni. In virtù dell’intima unione tra la natura umana e quella divina in Cristo, sotto il velo della sua perfettissima umanità avrebbe dovuto con frequenza manifestarsi in qualche forma la Seconda Persona della Santissima Trinità, che oltrepassa in tutto qualsiasi capacità umana di perfezione, in modo da render palese che Gesù era un essere completamente fuori del comune. “Mentre nel suo purissimo Corpo la natura evolveva lentamente verso la pienezza, ‘la saggezza divina riempiva la sua santa Anima e la grazia vi esauriva tutti i suoi doni’. […] Egli temperava le manifestazioni esteriori delle sue perfezioni occulte, come l’albero nuovo che dispiega poco a poco le sue gemme, le sue foglie e fiori prima di formare i suoi frutti; come il Sole che, dopo aver schiarito leggermente l’orizzonte, lo colora con il rosso crescente dell’aurora prima di inondare lo spazio con i suoi raggi vittoriosi e mostrare il suo volto splendente”,4 commenta Monsabrè.
Nostro Signore deve esser stato la perfezione nei gesti, negli atteggiamenti e persino nell’incedere. E che dire della sua voce incomparabile? La bellezza della sua Anima si specchiava meravigliosamente nel suo volto e, soprattutto, nel suo sguardo. Dotato di tutte le qualità umane possibili, Egli era bello, nobile e distinto al più alto grado. Tutto in Lui rivelava una misteriosa e ineffabile superiorità.
Perché non hanno visto: egoismo e mediocrità
Ma, quando Egli è andato ad annunciare la salvezza ai parenti e ai conoscenti, questi non hanno creduto. Vediamo in ciò quanto sia terribile la tendenza della natura umana a giudicare le cose in base all’apparenza, invece di accettare quello che è superiore.
Questa cecità spirituale è frutto della mediocrità. Il mediocre non riconosce mai i valori che non lo riguardano; egli è arciegoista. E ogni egoista è mediocre, perché sono difetti reciproci e inseparabili. La mediocrità porta la persona a non voler prestar attenzione a niente che gli possa esser superiore e subito cercare di denigrare. Per questo, con l’intento di umiliarLo, i nazareni chiamano Gesù “il falegname”. Non c’è riferimento a San Giuseppe, poiché questi, secondo alcuni commentatori, doveva già esser deceduto.
Lo stupore giustifica
Molto diversa sarebbe stata la storia dell’inizio della Chiesa se i nazareni avessero ammirato e seguito Nostro Signore.
Il ruolo dello stupore e dell’amore è messo in risalto da San Tommaso5 il quale afferma che chi, anche non battezzato, orienta la sua vita secondo il suo vero fine, amando un bene onesto più che se stesso, ottiene con la grazia la remissione del peccato originale. Commenta su questo particolare Garrigou-Lagrange: “È giustificato dal Battesimo di desiderio, perché questo amore, che è già l’amore efficace per Dio, non è possibile allo stato attuale dell’umanità senza la grazia rigeneratrice”.6 Potremmo allora invertire l’affermazione del Dottor Angelico e dire che quando una persona ama se stessa più che un bene, diventa mediocre ed egoista, pertanto, si apre ad ogni forma di male, passando ad esser cieca di Dio. Come si unisce a Dio colui che ama un bene superiore più che se stesso, così chi ama se stesso sopra tutte le cose e più di Dio, si lega al demonio. In questo senso, il limite che separa il Cielo dall’inferno è tracciato da una parola: stupore. Lo stupore di qualcosa di superiore mi approssima al Cielo; e lo stupore di me stesso, mi approssima all’inferno.
Gli effetti della cecità di Dio
5a E lì non poteva compiere nessun prodigio…
Si mostra molto attento l’Evangelista nel precisare, in questo versetto, che Gesù non Si rifiutava di fare miracoli, ma che “non poteva”, ossia, non c’erano le condizioni per farli. Egli, la cui semplice ombra o manto tante volte avevano guarito, a Nazareth non ha operato nessun miracolo. O ne ha fatti pochi, come riferisce San Matteo (cfr. Mt 13, 58).
Perché? Perché si realizzi un miracolo sono richieste due condizioni: in primo luogo la fede dei beneficiari e, in secondo, l’intercessione di colui per mezzo del quale Dio eserciterà il suo potere. Ora, il Divino Maestro non aveva bisogno di intercessione, poiché il potere è suo; ma necessitava della fede degli altri.7 L’invidia dei nazareni impediva che Gesù fosse accettato, e quanto Lui avesse fatto sarebbe stato analizzato da un punto di vista meramente umano.
Inoltre, se Egli avesse realizzato un miracolo grandioso, molto probabilmente, i nazareni si sarebbero ribellati e con ciò avrebbero aggravato il loro peccato, offendendo ancor più il Padre. Pertanto, una manifestazione del potere di Gesù avrebbe potuto condannarli irremissibilmente. Egli non voleva perderli, ma salvarli.
Si coglie qui un importante insegnamento per il nostro apostolato: dobbiamo fare il possibile affinché gli altri non pecchino e con ciò non offendano il Padre, poiché, prima di tutto, è la gloria di Dio il nostro obiettivo. Allora, alcune volte potremo mostrare i doni che la Provvidenza ci ha dato per fare il bene al prossimo; in altre, al contrario, sarà necessario velarli se possono essere causa di condanna per alcuni.
5b …ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6 E Si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Tali guarigioni non avevano il carattere clamoroso di un miracolo che sovverte le leggi della natura. Infatti, era frequente tra i sacerdoti ebrei la pratica dell’imposizione delle mani per guarire alcune malattie o espellere demoni. In questo modo, Nostro Signore vi ha svolto solo il ruolo di un semplice sacerdote.
Mentre nei villaggi vicini Egli insegnava e operava ogni tipo di miracoli, dalla propria terra è stato espulso dai suoi (cfr. Lc 4, 29)!
III – Stupore, antidoto contro la mediocrità
Se non saremo diligenti nel combattere la tendenza all’egoismo e alla mediocrità, manifestata dai nazareni in questa occasione, avremo difficoltà ad ammettere e ammirare i valori altrui. Per questo, dobbiamo esercitarci nella virtù del distacco da noi stessi. Il miglior mezzo per tale scopo consiste nel riconoscere sempre i punti nei quali il prossimo è superiore a noi, desiderando di ammirarlo e stimolarlo. Lo stupore deve essere per noi un’abitudine permanente e, se notiamo in noi qualche superiorità reale, dobbiamo, senza mai vanagloriarci, utilizzarla per aiutare gli altri. È l’invito sempre attuale alla virtù dell’umiltà.
Ben a proposito, la Chiesa dice, nella Colletta: “O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l’umanità dalla sua caduta”.8 Come Dio ha agito in relazione al mondo, così noi dobbiamo procedere in relazione a quanti ci sono inferiori per qualche ragione. Cristo ha avuto compassione dell’umanità e, avendo sempre l’Anima nella visione beatifica, ha assunto una carne sofferente per amore degli uomini.
Il piano di Dio con l’istinto di socievolezza
Questo è il grande piano di Dio per la società umana: creando gli uomini con l’istinto di socievolezza così radicato, ha voluto offrire loro la possibilità di aiutarsi gli uni gli altri, nello stupore reciproco dei doni ricevuti, in maniera che, travolgendo paragoni e invidie, ognuno culmini nel desiderio di servire e lodare quello che gli è superiore.
Da queste verità deriva un’importante conseguenza: il perdono, frutto della carità. Nel caso uno ci faccia un’offesa, deve subito sbocciare dal fondo del nostro cuore un perdono moltiplicato dal perdono. Agendo così, daremo il nostro contributo per avere una società nella quale tutti si perdonano reciprocamente, dunque senza che gli uni cessino di voler elevare gli altri.
Questo è uno dei modi più sapienti di praticare l’amore a Dio in relazione al nostro prossimo: volendo che questo si elevi sempre più nella virtù e tributando il nostro stupore e la nostra lode alle sue qualità. Una società costituita sulla base di tale principio tratto dal Vangelo eliminerebbe tanti orrori che imperversano oggi, e diventerebbe la più felice che possa esistere in questa valle di lacrime facendo in modo che tutti si uniscano in funzione dell’amore a Dio.
Quando questa società diventerà una realtà, potrà a ragione esser denominata Regno di Maria, poiché sarà pervasa dalla bontà del Sapienziale e Immacolato Cuore della Madre di Dio. Regno nel quale la Santissima Vergine comunicherà a tutti una partecipazione al supremo istinto materno che Ella ha verso ognuno di noi,9 dove comprenderemo interamente quello che ha detto a Fatima: “Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà!”.
1) GARCÍA CORDERO, OP, Maximiliano. Biblia Comentada. Libros proféticos. Madrid: BAC, 1961, v.III, p.4. 2) CCE 1268. 3) SAN BASILIO MAGNO. De envidia. Homilia XI, n.3: MG 31, 378. 4) MONSABRÉ, OP, Jacques-Marie-Louis. L’Ouvrier. In: Exposition du Dogme Catholique. Vie de Jésus-Christ. Carême 1880. 9.ed. Paris: Lethielleux, 1903, v.VIII, p.71. 5) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. I-II, q.89, a.6. 6) GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald. El Salvador y su amor por nosotros. Madrid: Rialp, 1977, p.34. 7) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., III, q.43, a.2, ad 1. 8) 14ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Preghiera Colletta. In: MESSALE ROMANO. Riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI. 2.ed. Città del Vaticano: L. E. Vaticana, 2000, p.260. 9) Cfr. SAN LUIGI MARIA GRIGNION DE MONTFORT. Traité de la vraie dévotion à la Sainte Vierge, n.144. In: Œuvres Complètes. Paris: Du Seuil, 1966, p.577578.
Ancora nessun commento