Vangelo
17 Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. 20 Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. 21 Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. 22 Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’Uomo. 23 Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei Cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti. 24 Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione.. 25 Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. 26 Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6, 17.20-26).
Discorso della Montagna
Le beatitudine enunciate da Gesù hanno cambiato il corso della Storia e hanno señato l’inizio di una nuova era: il Cristianesimo. La crudeltà del mondo pagano è stata così mortalmente ferita. La dottrina dell’obbedienza alla Legge si è perfezionata fino a raggiungere un grado sublime: la pratica dell’amore e il desiderio di santificazione. In questo articolo, il lettore troverà uno dei fondamenti del carisma degli Araldi del Vangelo.
I — Divina preparazione per l’esposizione della dottrina
Sebbene non siano dotati di ragione e, pertanto, incapaci di intendere una dottrina, gli animali apprendono come se andassero a scuola. Esiste tra loro un forte rapporto istintivo, con il quale gli uni trasferiscono agli altri le esperienze acquisite.
Per esempio, in un determinato momento, l’aquila comincia ad allenare i suoi piccoli a lanciarsi nei primi tentativi di volo; la leonessa trasmette alla sua prole lezioni pratiche di caccia; gli insetti sono bersaglio dell’istinto materno della gallina, quando stimola i suoi pulcini a trovare cibo.
Prima tappa della formazione: il convivio
Su un piano superiore, questo succede anche all’uomo, essere intelligente e in possesso di un nobile istinto di socievolezza. In braccio alla madre, il bambino riceve le prime lezioni: nel modo di esser abbracciato, baciato, accarezzato… egli impara le prime nozioni sulla convivenza sociale. Poi, nel rapporto con i fratelli e parenti più prossimi, osservando i loro modi e costumi, egli assimilerà lo stile proprio della sua famiglia. Solo molto più tardi giungerà l’occasione propizia per una formazione dottrinale e metodica.
Così ha proceduto anche Gesù con i suoi Apostoli e con il suo popolo.
I primi passi per la fondazione della Chiesa
Il Salvatore aveva già predicato nelle sinagoghe della Galilea, “ed era acclamato da tutti” (Lc 4, 15); moltiplicava meraviglie dove passava, espelleva i demoni dai posseduti al punto di sollevare l’interrogativo: “Comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?” (Lc 4, 36); aveva guarito la suocera di Pietro e un incalcolabile numero di altri infermi (cfr. Lc 4, 38-41); aveva operato l’indimenticabile pesca miracolosa (cfr. Lc 5, 1-7); spezzando tutti i modelli plurisecolari, aveva toccato un lebbroso, rendendolo sano (cfr. Lc 5, 12-14); perdonava i peccati (cfr. Lc 5, 1820). Così, a seguito di un convivio che era diventato assiduo, tutti erano ora colpiti dall’esemplarità di Gesù nei suoi minimi dettagli.
Con l’elezione dei dodici Apostoli, Gesù ha concluso alla perfezione la prima fase dell’insegnamento. Diventava ora necessario esporre la sua dottrina in maniera metodica, al fine di conferire una base logica a tutte le sue azioni e insegnamenti.
E’ in questa sequenza che si inserisce il Discorso della Montagna.
Con molta proprietà, a questo riguardo così si esprime Fillion: “L’istituzione del Collegio Apostolico e il Discorso della Montagna sono fatti connessi ed entrambi hanno un elevatissimo significato nella vita di Gesù. A ragione sono considerati come i primi passi nella fondazione della Chiesa. Con l’elezione degli Apostoli, Egli cercava aiutanti e preparava continuatori ufficiali; nel pronunciare il suo grande discorso, promulgava quella che espressivamente è stata chiamata la Carta del Regno dei Cieli”.1
La predicazione e il procedimento di Gesù erano inusuali per la psicologia e mentalità di quei popoli dell’Antichità. Per questo, non solo per i giudei comuni, ma anche per gli stessi Apostoli, era indispensabile un’esposizione strutturata del pensiero del Divino Maestro. Gli uni e gli altri erano meravigliati, ma era giunto il momento che Egli facesse conoscere in forma chiara e sintetica, soprattutto agli Apostoli, la dottrina in funzione della quale si muoveva. Inoltre, dato il progressivo dissenso tra Lui, gli scribi e i farisei, era conveniente una definizione di programma, per rendere così effettiva la profezia del Vecchio Simeone: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione” (Lc 2, 34).
II — Il maggior paradosso della Storia
Prima di addentrarci nell’analisi delle Beatitudini, considereremo il grande paradosso che ha rappresentato, per l’epoca, il Discorso della Montagna.
Gli antichi greci erano soliti chiamare paradosso l’enunciato (morale o dottrinale) che contrariasse l’opinione pubblica comune e corrente. Autori di grande fama affermano che questo Discorso è stato il più contundente, ampio e radicale paradosso esistito fino ad allora.
Per meglio comprendere quanto Gesù abbia scosso la gentilità i fondamenti del paganesimo e alcune deviazioni introdotte nei costumi dello stesso popolo eletto, ricordiamo a rapidi tratti qual era il quadro sociale dell’Antichità, quando il Redentore ha cominciato la sua vita pubblica.
I costumi dell’Antichità
Si possono facilmente riempire pagine e pagine con fatti dimostrativi della degradazione del mondo prima di Gesù Cristo. Limitiamoci ad alcuni dati forniti dall’illustre storico Weiss.
Egli dice: “In tutta l’Antichità la donna è vista come un essere inferiore. Il suo valore è, secondo Aristotele, poco diverso da quello di uno schiavo. È sempre sottomessa alla tutela del padre o del marito, […] il marito aveva sopra di lei diritto di vita e di morte”.
E continua: “Il padre era, non solo il capo, ma il despota della famiglia e il figlio era una sua proprietà assoluta: poteva venderlo fino a tre volte, poteva ucciderlo […]. Il bambino appena nato era presentato al padre; se questi lo sollevava, egli sarebbe stato cresciuto; se lo lasciava per terra, sarebbe stato abbandonato, […] gettato in acqua o abbandonato alle fiere nel bosco. Nella migliore delle ipotesi, sarebbe stato esposto in luogo pubblico, a disposizione di chi volesse educarlo alla schiavitù o alla prostituzione”.
Non era molto più grande il valore attribuito alla vita del povero: “L’egoismo portò il mondo antico a disprezzare la povertà. […] Platone è dell’opinione che non sia necessario preoccuparsi del povero quando si ammala, poiché, non potendo più lavorare, la sua vita non serve più a nulla”.
Quanto agli schiavi – più di un milione, solo a Roma! – questi non avevano alcun diritto, potevano esser trattati come misere scarpe vecchie. “Il romano […] classificava così gli strumenti: ‘alcuni sono muti, come l’aratro e il carro; altri emettono voci inarticolate, come i buoi; i terzi parlano, sono gli schiavi’”.
Il godimento sfrenato della vita, a Roma, ha abbruttito a tal punto gli uomini che, afferma Weiss: “Ora solo il sangue li poteva eccitare. […] Quello che piaceva di più al romano era veder morire uomini”. 2 E cita alcuni esempi:
In una rappresentazione teatrale, incendiare una casa per assistere alla morte di tutti i suoi abitanti. In un’altra, crocifiggere un capo di ladri e, mentre è ancora vivo, portare orsi affamati perché lo divorino davanti al pubblico. In una terza, gettare un giovane dalla cima di una torre, perché la platea lo veda sfracellarsi al suolo.
Tutto questo, si noti, nelle due grandi civiltà dell’epoca: la greca e la romana. Lo stesso popolo eletto aveva alcuni costumi di crudeltà innegabile. Per esempio, la schiavitù di gentili, la pena del taglione, l’impietoso trattamento dato ai lebbrosi, ecc.
III — Il comandamento della perfezione
Questa era la situazione del mondo pagano quando Gesù ha rivolto ai suoi discepoli e alla grande moltitudine il Discorso della Montagna.
San Matteo sviluppa più ampiamente questa esposizione dottrinale del Divino Maestro nel suo capitolo V, terminando con una sintesi di tutta la materia nel versetto 48: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Ecco qui la sostanza delle Beatitudini – così come delle maledizioni opposte – riassunte da San Luca nel Vangelo di oggi. Soffermiamoci sulla sua considerazione.
Nel creare l’anima umana, Dio le ha infuso un forte desiderio di felicità, per cui non c’è mai stato, né ci sarà mai, chi non l’abbia cercata. Soprattutto in epoche come la nostra, attraversata da drammatiche crisi, preoccupazioni e sofferenze, diventa ancor più acuto questo veemente appetito.
Dove, tuttavia, trovarla con sicura certezza?
Dio non crea nulla se non per Sé. Per questa ragione, al di fuori di Lui gli esseri intelligenti – Angeli o uomini – non ottengono una vera felicità se non adempiendo alla finalità ultima per la quale sono stati creati. È su questa relazione tra l’uomo e Dio che si riflette la grande promessa fatta da Gesù: quella di essere beati in questa Terra e post-mortem, per tutta l’eternità, in Cielo.
“Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione”
Noi cristiani, in quanto battezzati, abbiamo l’obbligo di non perdere lo stato di grazia. Se, per debolezza o cattiveria, ce ne vediamo privi, con diligenza dobbiamo cercare di recuperarlo. Questa è la cosiddetta perfezione minima.
Nel Discorso della Montagna, Gesù non ci impone l’obbligo di essere perfetti, però, manifesta il desiderio che l’aspirare a questo stato costituisca uno dei punti essenziali della nostra esistenza. Inoltre, tanti sono stati i tesori da Lui lasciati all’umanità – il Battesimo, la Confermazione, l’Eucaristia, ecc. – che, solo per gratitudine a così immensi benefici, già sarebbe un obbligo da parte nostra metterci in campo per raggiungere la meta enunciata da Gesù.
Con molta ragione, riguardo l’universalità di questo dovere di santità, così si esprime Giovanni Paolo II: “Occorre allora riscoprire, in tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della Costituzione Dogmatica Lumen gentium, sulla Chiesa, dedicato alla ‘vocazione universale alla Santità’. […] Il dono [di santità concesso alla Chiesa] si traduce a sua volta in un compito, che deve governare l’intera esistenza cristiana: ‘Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione’ (I Ts 4, 3). È un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: ‘Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità’ […]. Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni ‘geni’ della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno”.3
San Paolo è instancabile nel sottolineare la necessità della perfezione illimitata, come sostanza della vocazione del cristiano: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei Cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità…” (Ef 1, 3-4). È comune, nel corso delle sue Epistole, trovare una vera sinonimia tra i termi ni “cristiano” e “santo”, tale era il suo impegno in questo particolare (cfr. Ef 4, 13; I Ts 4, 3.7).
Dio è infinito. Pertanto, chi è chiamato ad amarLo ha come fine ultimo un Essere illimitato. L’amore nostro è una potenza creata con aspirazione a Dio, e per questo dice Sant’Agostino: “I nostri cuori sono stati creati per Te e solo in Te riposano”,4 ossia, la stessa potenza dell’amore in se stessa mira all’infinito. Per questo afferma San Bernardo: “La misura per amare Dio, consiste nell’amarLo senza misura”.5
Lo stesso Gesù, con divina radicalità, così rafforza il Comandamento dato a Mosè: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze” (Mc 12, 30). Da qui si conclude che abbiamo il dovere di cercare il fine in tutta la sua ampiezza, e di impiegare, per raggiungerlo, tutti i mezzi alla nostra portata.
Inoltre, ogni vita, anche quella soprannaturale, è suscettibile di progresso, e ha in sé una forza dinamica che cerca il suo sviluppo. Per quanto riguarda il nostro corpo, questo processo si verifica istintivamente e piacevolmente. Quanto allo spirito, però, è indispensabile l’applicazione della nostra intelligenza e della nostra volontà, per cooperare con la grazia di Dio.
IV — Le beatitudini
Fatte queste considerazioni, passiamo ad analizzare con calma i diversi versetti del Vangelo di questa domenica.
17 Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Da tutte le parti accorrevano gli infermi e curiosi, gli uni per essere liberati dai mali, gli altri per verificare la realtà della fama di Gesù che si era diffusa.
Perché non sono saliti tutti per incontrare Gesù in cima al monte? San Beda, il Venerabile, così ci spiega: “Raramente si osserva che le turbe abbiano seguito Gesù fino alle alture, o che Egli abbia guarito qualche infermo in cima a un monte; se non che, una volta guarita la febbre delle passioni e accesa la luce della scienza, lentamente si sale fino al culmine della perfezione evangelica”.6 Per questo il Divino Maestro scende con gli Apostoli appena eletti per stare con la moltitudine che Lo aspettava.
20a Alzati gli occhi verso i suoi discepoli…
Sono svariate le interpretazioni degli autori a proposito di questo gesto di Gesù. Secondo la narrazione stessa di Luca, si ha l’impressione che i discepoli fossero situati su un piano più alto rispetto a quello della moltitudine e, come se desiderasse offrire a quella gente un certo esempio, malgrado stesse parlando a tutti, fissa il suo sguardo sugli Apostoli.
20b …Gesù diceva: “Beati voi poveri, perché il vostro è il Regno di Dio”.
La povertà è citata al primo posto da entrambi gli evangelisti, come la madre delle altre virtù. Come potrebbe, del resto, uno entrare nel Regno dei Cieli posseduto dall’amore per questo mondo e per i suoi beni?
Chi è considerato “povero”, secondo il Vangelo? Lazzaro possedeva una delle maggiori fortune di Israele, ma era povero di spirito. E, in senso opposto, Giuda per la sua avidità, pur possedendo poco o nulla quanto a beni materiali, è stato traditore perché era “ricco” (di spirito).
Non mancherebbe materia per scrivere un lungo trattato su questo versetto 20, e numerosi sono gli autori illustri che dibattono con precisione su concetti riguardanti questa beatitudine. Ai fini del presente sermone, basta focalizzarci su quanto la ricchezza o la povertà debbano esser assunte come mezzi per raggiungere la santità. L’importante non è avere o no denaro. La questione si pone nel come disporre di esso per acquisire il Regno di Dio.
Il grande male di tutti i tempi è quello di desiderare la fortuna per meglio godere i piacere della vita, e non per meglio servire Dio. Sotto quest’ottica, non viene a proposito esser ricco o povero, perché il primo disprezzerà il secondo, questo invidierà l’altro ed entrambi incorreranno nella sentenza contenuta nel versetto 24: “Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”.
Per questa ragione, è assolutamente preferibile non possedere nulla che commettere un peccato, o anche, raffreddarsi nella pietà.
21a “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati”.
L’Evangelista applica a questa beatitudine la maledizione contro coloro che vivono nell’abbondanza, perché verranno ad aver fame: “Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame” (v. 25). Da qui il famoso Cornelio a Lapide conclude che, qui, si tratta realmente di fame di alimenti, e non solo di qualcosa di spirituale.
È questo il più alto grado di questa beatitudine: sopportare con rassegnazione cristiana – pertanto, senza ribellione, senza invidia e senza odio – i sacrifici provenienti dalla povertà materiale; questo rende il povero un beato.
D’altra parte, sono beati anche quelli che hanno fame di Dio. Questi ultimi, Dio li alimenterà con la sua grazia, con più abbondanza, in base al loro desiderio di perfezione. È una “fame”, afferma Cornelio a Lapide, che allo stesso tempo alimenta fino alla sazietà, perché in Cielo saremo sazi di felicità e gloria.
21b “Beati voi che ora piangete, perché riderete”.
I peccatori trovano la loro falsa felicità nella trasgressione della Legge di Dio. Gesù ammonisce severamente costoro, perché il giorno del Giudizio dovranno piangere la loro condanna eterna: “Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete” (v. 25). Inoltre, sempre su questa Terra, nonostante la loro apparente gioia, vivono con tristezza, poiché la coscienza continuamente li accusa delle loro colpe. Al piacere proveniente dal peccato segue sempre il rimorso per la colpa commessa.
Ma coloro che piangono di pentimento per i propri peccati, già trovano, nella loro contrizione, consolazione e felicità. L’esperienza ci insegna che il pentimento porta gioia, ed è frutto della grazia di Dio.
Anche coloro che sopportano con pazienza le difficoltà sono beati, già in questa vita, poiché sebbene soffrano e “piangano”, la pazienza ottenuta con la grazia di Dio li avvolge di soavità e pace dell’anima. Al contrario, coloro che si mostrano non rassegnati nelle avversità, essi caricano nel cuore una profonda amarezza.
22 “Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’Uomo. 23 Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei Cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti”.
Nell’essere umano, l’istinto di socievolezza è più profondo e sensibile di quello di conservazione. Sono numerosi gli uomini che affrontano grandi pericoli, e la morte stessa, più per pressione della società, per paura del ridicolo, di esser considerati codardi, che per autentico eroismo.
Le persecuzioni violente contro la Chiesa, nel corso della Storia, hanno popolato il Cielo di martiri e fanno stupire di ammirazione il mondo intero. Alle persecuzioni morali, è minore il numero di coloro che resistono. Nel mondo di oggi, quanti perdono la Fede, per non resistere alla pressione dell’ambiente di ateismo pratico che li circonda? Per questo, ai nostri giorni, è forse più meritevole proclamare la Fede davanti al riso ironico di una cerchia di pseudo amici, di quanto lo fosse il proclamarla davanti al ruggito delle fiere nel Colosseo, nei primi tempi del Cristianesimo.
A volte, ancor peggio della persecuzione dei cattivi, è l’incomprensione dei buoni.
Ma, “guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”, aggiunge Nostro Signore, perché questo sarebbe il segno della nostra mancanza di integrità, poiché il mondo accetta soltanto le mezze verità e la virtù molle, impiegando in ciò una forma coperta e più comoda di praticare il male.
Gesù comincia l’enunciato delle beatitudini con la promessa del Regno dei Cieli, e con essa termina, per far capire che anche con la pratica delle altre si ottiene lo stesso premio, sottintendendo quanto esse siano interconnesse. Non basta praticare una di loro isolatamente, disprezzando le restanti.
V — Il Discorso della Montagna al giorno d’oggi
Fondata la Chiesa, con la sua progressiva espansione e capillare penetrazione nelle società di quei tempi, Dio e la sua legge sono stati posti al centro della vita umana; numerosi sono stati quelli che sono passati a praticare i consigli evangelici e una nuova era è brillata sulla Terra, quella del Cristianesimo.
E oggi, cosa si è fatto di questa era? Il terrorismo minaccia, i sequestri si diffondono, il rapimento di bambini prolifera, il commercio di organi umani aumenta, il crimine, i vizi e la mancanza di rispetto si impongono; assistiamo quotidianamente all’espansione di odi, guerre intestine e internazionali, stragi di innocenti, alla scomparsa graduale e progressiva dell’istituto della famiglia… Insomma, quanto ci sarebbe ancora da enumerare! Non staremo noi vivendo oggi giorni peggiori di quelli dell’Antichità?
E perché il Discorso della Montagna non produce, oggi, gli stessi effetti di un tempo?
Le radici dei mali attuali sono identiche a quelle degli orrori dell’epoca di Gesù, che sinteticamente così si potrebbero esprimere: “il fine ultimo dell’uomo si compie su questa Terra, per questo egli deve godere di tutti i piaceri che la vita e questo mondo gli offrono, poiché Dio non esiste”. Così, continua ad essere valido – e più che mai – nella sua integrità, il Discorso della Montagna.
Quale, allora, la ragione di questa insensibilità?
Manca all’umanità una grazia efficace che le faccia, come al figliol prodigo, avere nostalgia della casa paterna e voler ritornare alle delizie delle consolazioni di chi ama veramente Dio, i suoi Comandamenti, e il prossimo come se stesso.
Chissà se, dopo un divino intervento, comprendendo meglio e amando il Discorso della Montagna, l’umanità convertita abbracci come non mai la perfezione e così diventi realtà la profezia enunciata dalla Madonna a Fatima: “Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà!”
1) FILLION, Louis-Claude. Vida de Nuestro Señor Jesucristo. Vida pública. Madrid: Rialp, 2000, v.II, p.91. 2) WEISS, Juan Bautista. Historia Universal. Barcelona: La Educación, 1928, v.III, p.652-657. 3) GIOVANNI PAOLO II. Novo Millennio Ineunte, n.30-31. 4) SANT’AGOSTINO. Confessionum. L.I, c.1, n.1. In: Obras. Madrid: BAC, 1955, v.II, p.82. 5) SAN BERNARDO. Tratado sobre el amor a Dios. C.VI, n.16. In: Obras Completas. 2.ed. Madrid: BAC, 1993, v.I, p.323. 6) SAN BEDA, apud SAN TOMMASO D’AQUINO. Catena Aurea. In Lucam, c.VI, v.17-19.
Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.
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