Vangelo
In quel tempo, dice Gesù a Nicodemo: 14 “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, 15 perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna. 16 Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna. 17 Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui. 18 Chi crede in Lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio 19 E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. 21 Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3, 14-21).
La conversazione notturna
Ricevendo con affabilità un potenziale discepolo, Gesù, il primo evangelizzatore della Storia, fa in modo di prepararlo con cura e tatto didattico ad essere capace di credere nella sua divinità.
I – Gesù fortifica la fede di un discepolo discreto
Animi divisi davanti alla figura di Gesù
Il presente Vangelo è la parte finale della conversazione notturna avuta tra Gesù e Nicodemo. Prima di questo incontro, Egli aveva realizzato il miracolo alle Nozze di Cana ed espulso i mercanti dal Tempio. Cresceva il numero dei convertiti, poiché tutti comprovavano la grandiosità di Gesù “vedendo i segni che faceva” (Gv 2, 23). Nello stesso tempo non era integra, come doveva essere, la fede di quegli ammiratori, perché le speranze del popolo giudeo erano rivolte ad un Messia politicizzato, colmo di doti umane, secondo il concetto mondano dell’epoca. Per questo “Gesù non Si confidava con loro” (Gv 2, 24). Se è vero che alcuni riuscivano a discernere le sembianze sovrannaturali di Gesù, mancava loro comunque un’adeguata abnegazione e dedizione per seguirLo incondizionatamente. Nonostante ciò, da parte del popolo semplice, la nota dominante era di franca simpatia.
Non succedeva la stessa cosa con le autorità religiose. Era apparso davanti a loro un profeta che predicava una dottrina nuova, dotata di potenza (cfr. Mc 1, 27), che scuoteva la struttura dei principi religiosi da loro appresi in una scuola di lunga tradizione. A questa difficoltà, se ne era aggiunta un’altra grave: l’espulsione dei mercanti dal Tempio. A causa di quest’episodio, i loro animi erano fortemente irritati, e la figura di Gesù, oltre a creare loro un tormentoso problema di coscienza, ad ogni piè sospinto faceva loro sanguinare le ferite mal cicatrizzate del risentimento.
La fedeltà discreta di Nicodemo
Entro questa cornice sociale, psichica e religiosa, appare la figura di Nicodemo. Secondo San Giovanni, si tratta di un fariseo, principe dei Giudei, che temendo di compromettere la reputazione tra i suoi compagni, cercò di incontrarsi con Gesù di nascosto (cfr. Gv 3, 1-2). In effetti, tale era il furore dell’indignazione dei farisei contro il Divino Maestro che, se Nicodemo non avesse proceduto in questo modo, avrebbe subito terribili persecuzioni. I Vangeli sono ricchi di particolari a questo riguardo, ma basterebbe ricordare quanto detto dai farisei quando si indignarono contro coloro che avrebbero dovuto catturare Gesù: “Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi, o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!” (Gv 7, 48-49). Questa è la ragione per la quale Nicodemo, come Giuseppe di Arimatea, pur sempre fedele, mantenne una grande discrezione fino alla fine (cfr. Gv 19, 38-39). Malgrado ciò, è degna di nota l’imperfezione della fede di Nicodemo nell’Uomo-Dio: Lo chiama Maestro a causa dei suoi miracoli, ma Lo vede solo come un grande uomo aiutato dal potere di Dio.
Il Redentore approfittò della circostanza della sua visita per rettificare e fortificare la fede di questo nuovo e segreto discepolo (cfr. Gv 3, 3-13), preparandolo ad accettare la sua divinità, facendogli conoscere qualcosa sul Battesimo e l’Incarnazione. Così finisce per dichiarargli l’obiettivo ultimo della sua venuta su questa Terra: la salvezza degli uomini attraverso la sua Morte, e la morte in Croce. Questa è la tematica della Liturgia di oggi.
II – Il serpente di bronzo, simbolo del Figlio dell’Uomo
In quel tempo, dice Gesù a Nicodemo: 14 “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, 15 perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna”.
San Cirillo di Alessandria1 fa un accostamento tra il Battesimo, anteriormente enunciato da Gesù, e la raffigurazione del serpente di bronzo. Secondo lui, per il fatto che Nicodemo forse non ha colto il significato degli aspetti sovrannaturali di questo Sacramento, il Maestro ha deciso di ricordargli questo episodio così ben conosciuto da tutto il popolo israelita, a fortiori da chi era fariseo come il suo visitatore.
L’episodio dell’Antico Testamento
Partito dal Monte Hor in direzione del Mar Rosso, il popolo ebraico si era ribellato contro Mosè e addirittura direttamente contro Dio stesso. Questo per la stanchezza, la nausea e la mancanza di pane, acqua e altro cibo che non fosse la manna. Per castigo, Dio inviò all’accampamento israelita serpenti, i cui morsi provocavano infiammazione, febbre e, infine, la morte; da qui il loro nome: “di fuoco”. I giudei allora implorarono l’intercessione di Mosè presso Dio. Questi non eliminò il male, ma concedette loro un rimedio: chiunque fosse stato attaccato dal mortifero animale sarebbe stato immediatamente guarito se avesse guardato un serpente di bronzo che, per ordine divino, il profeta aveva fissato su un palo (cfr. Nm 21, 4-9).
Questo oggetto fu considerato dal popolo come un simbolo della guarigione che gli era concessa da Dio. Nicodemo doveva conoscere l’interpretazione esatta di questo miracolo, che si trova narrato nel Libro della Sapienza: “Avendo già avuto un pegno di salvezza […]. Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da Te, Salvatore di tutti” (16, 6-7).
Immagine della Redenzione
È divina la didattica di Gesù. D’accordo con i commentatori, tra le molteplici immagini della Redenzione del genere umano, nessuna è superiore a questa: un serpente senza veleno per guarire i mali prodotti dai morsi dei serpenti. Afferma San Paolo: “Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita” (Rm 5, 18); “E come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (I Cor 15, 22).
Per quale ragione è il bronzo il materiale del serpente salvatore? Svariate sono le opinioni. Preferiamo quella di Eutimio:2 per rappresentare Cristo, il serpente non doveva essere di una sostanza fragile, in maniera che potesse risultare lampante la differenza tra la nostra carne, soggetta al peccato, e quella del Redentore, forte e invulnerabile senza il minimo margine di imperfezione.
“Attirerò tutti a Me”
Il Figlio dell’Uomo sarebbe dovuto essere elevato come il serpente di bronzo di Mosè. Il primo significato di questo para gone viene in mente come sinonimo di glorificazione. Certamente così lo ha inteso Nicodemo, poiché non ha chiesto spiegazioni a questo riguardo, come avrebbe fatto la moltitudine più tardi: “Come dunque Tu dici che il Figlio dell’Uomo deve essere elevato?” (Gv 12, 34). Questa nota di gloria traspare chiaramente nella voce che è venuta dal Cielo: “L’ho glorificato e di nuovo Lo glorificherò” (Gv 12, 28), su cui Gesù commenta: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a Me” (Gv 12, 32). In altre parole, tutti i popoli, giudei e pagani, Lo avrebbero riconosciuto come il Salvatore.
Prefigura della Crocifissione
Tuttavia, è anche prefigurata la Crocifissione, evidenziata da tutti i commentatori, come, per esempio, Sant’Agostino: “Cosa significa il serpente innalzato? La Morte del Signore in Croce. E’ stata raffigurata nel serpente, appunto perché la morte proveniva dal serpente. Il morso del serpente è letale, la Morte del Signore è vitale. Si volge lo sguardo al serpente per immunizzarsi contro il serpente. Che significa ciò? Che si volge lo sguardo alla Morte per debellare la morte. Ma alla morte di chi si volge lo sguardo? Alla Morte della Vita, se così si può dire. E poiché si può dire, è meraviglioso dirlo. […] Forse che Cristo non è la Vita? Tuttavia Cristo è stato crocifisso. […] Ma nella Morte di Cristo morì la morte, perché la Vita, morta in Lui, uccise la morte e la pienezza della Vita inghiottì la morte. La morte fu assorbita nel Corpo di Cristo. […] Come coloro che volgevano lo sguardo verso quel serpente, non perivano per i morsi dei serpenti, così quanti volgono lo sguardo con fede alla Morte di Cristo, vengono guariti dai morsi dei peccati. E mentre quelli venivano guariti dalla morte per la vita temporale, qui invece è detto: affinché abbia la vita eterna. Esiste infatti questa differenza, tra il segno prefigurativo e la realtà stessa: che la figura procurava la vita temporale, mentre la realtà prefigurata procura la vita eterna”.3
Gesù prepara le mentalità ad accettare il dogma
Resta da dire una parola sull’espressione “il Figlio dell’Uomo”, che appare 82 volte nel corso dei Vangeli, quasi sempre proferita dalle adorabili labbra di Gesù e, oltretutto, esclusivamente riferita a Lui. L’Antico Testamento porta alla superficie questa stessa espressione, ora in riferimento ad un semplice uomo, ora ad un essere sovrannaturale superiore ad un uomo comune (cfr. Dn 7, 13ss; Ez 2–3; Is 51, 12).
In Cristo noi troviamo una misteriosa unione di due nature – quella divina e quella umana – in una sola Persona. Era necessario preparare gradualmente le mentalità all’accettazione, basata sulla fede, di questo altissimo dogma. Oggi – dopo due millenni, con tutta la Tradizione ed il grande sviluppo dottrinario della teologia – ci è più facile abbracciare questa fondamentale verità rivelata. A quei tempi, al contrario, la cultura religiosa pronosticava una figura messianica molto differente. Il Messia avrebbe dovuto essere un grande conestabile di nazionalità giudaica che avrebbe dato al suo popolo la supremazia su tutti gli altri popoli, liberandolo da qualsiasi onere, sottomissione o tributo. Soprattutto in quel momento in cui i Giudei stavano sottomessi politicamente e tributariamente all’Impero Romano, il termine Messia, evocato, metteva in movimento una dinamica catena di sentimenti nazionalisti.
Sapienziale l’impiego dell’espressione “Figlio dell’Uomo”
In che modo allora utilizzare il linguaggio umano per approssimare le intelligenze all’accettazione di uno dei più alti dogmi della nostra Fede? Dirsi semplicemente Figlio di Dio non avrebbe risolto il problema e perfino avrebbe potuto condurre il popolo giudeo, tradizionalmente credente in un solo Dio, di fronte ad un’enorme perplessità: accettare l’esistenza di un Dio-Uomo! È stato, d’altronde, quello che più tardi è avvenuto: “Intanto i giudei mormoravano di Lui perché aveva detto: ‘Io sono il pane disceso dal Cielo’. E dicevano: ‘Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la Madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal Cielo?’” (Gv 6, 41-42).
Di conseguenza era molto sapienziale l’impiego dell’espressione “Figlio dell’Uomo”. Essa permetteva, a chi ascoltava, di situarsi a qualsiasi livello del suo grado di fede. Se si fosse trattato di un semplice naturalista, il suo giudizio su Gesù sarebbe stato meramente umano, non discernendo costui la sua divinità, e questa espressione lo avrebbe lasciato tranquillo. Se, al contrario, si fosse trattato di un grande mistico, la natura divina avrebbe lasciato risplendere i suoi riflessi sull’umanità di Gesù e, in questo caso, l’espressione in questione sarebbe stata come un’ulteriore manifestazione di umiltà di Gesù. Questa è la costante trovata in non poche pagine dell’agiografia: vediamo i Santi far uso di un linguaggio non interamente esplicito o categorico, al fine di evitare perplessità nei loro ascoltatori, molte volte anche tra i loro discepoli.
Da qui si capisce quanta delicatezza Gesù abbia utilizzato in questa conversazione con Nicodemo, nel far uso dell’immagine del serpente elevato da Mosè nel deserto, approssimandola, metaforicamente, a quella del Figlio dell’Uomo, “perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna”. Ormai era pronto quel fariseo buono ad accettare l’affermazione contenuta nel versetto immediatamente successivo.
III – Dio ci ha dato suo Figlio Unigenito per salvarci
Gesù procede lentamente nella sua dottrina. “Nemo summus fit repente”, dice un antico proverbio latino: le grandi opere non si fanno tutte in un colpo. Si trovava davanti a Lui un uomo convinto che soltanto la Legge salva, ed era necessario condurlo ad accettare la vera via della salvezza: la fede in Gesù. Ancora una volta, traspare la delicatezza del Divino Maestro, che lo prepara al passo seguente. Egli non parla direttamente di salvezza, ma di “vita eterna”, come farà più tardi nel rivelare il Sacramento dell’Eucaristia (cfr. Gv 6). E nonostante ciò, in quest’altra occasione, di fronte ad una verità tanto audace, “molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: ‘Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?’”(Gv 6, 60).
16 “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.
Bellissimo argomento per convincere un uomo logico e retto come Nicodemo. Gesù gli aveva già rivelato l’esistenza di un’altra Persona in Dio, quella dello Spirito Santo (cfr. Gv 3, 5-8). Ora, accentua il carattere soprannaturale e divino della Seconda Persona, presente nell’espressione usata anteriormente, “il Figlio dell’Uomo”, riferendoSi al Figlio Unigenito di Dio. Maldonado tesse delle belle considerazioni su questo versetto, cominciando con il mettere in risalto la forza dell’affermazione impiegata da Gesù per riferirSi al grande amore di Dio nei confronti degli uomini. Nell’usare il termine “mondo”, il Divino Maestro dilata i limiti dell’applicazione di questo amore molto al di là delle frontiere del popolo giudeo, “con il quale per lo meno aveva una specie di obbligo per ragioni di Alleanza”.4
In effetti, quest’amore di Dio per noi non potrebbe essere più grande. Se Egli ci avesse dato tutti gli Angeli messi insieme sommati all’universo intero, non sarebbe niente in confronto a ciò che ci ha donato nella realtà. Il Padre sapeva bene che, nel dare suo Figlio Unigenito, ci offriva il Cielo e la stessa partecipazione alla sua vita divina (cfr. Rm 8), perché Gesù è un Erede estremamente generoso. Una maggiore manifestazione di bontà è impossibile! Lo attesta meravigliosamente San Paolo nel primo capitolo della sua Epistola agli Ebrei.
Quest’insuperabile ossequio non è fatto agli Angeli, ma all’umanità, ai figli di genitori prevaricatori – Adamo e Eva –, pure loro macchiati d’innumerevoli colpe. Gli spiriti ribelli li ha fatti precipitare nelle profondità dell’inferno dopo il primo e unico peccato. Qual è stata la ragione che ha portato il Padre ad usare tanta misericordia verso di noi? Al posto dei meritati castighi, ci ha dato suo Figlio Unigenito, sacrificandoLo – per salvarci – con la infamante morte in Croce.
Oltretutto, il Padre non L’ha donato in parte, ma, al contrario, nella sua interezza e senza riserve. Le grazie di Gesù, i suoi meriti, il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, tutto quanto, è completamente nostro. Egli è il nostro Re, il nostro Capo, il nostro Modello, il nostro Maestro, la nostra Causa.
Qual è l’obiettivo di Dio nel darci quest’infinito dono?
17 “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui”.
Alcune traduzioni usano il verbo giudicare e non condannare. Realmente, in latino troviamo ut iudicet mundum. Ora, per i Giudei – come ci spiega Maldonado5 – i due verbi hanno lo stesso significato di castigare. Considerata la manifestazione del grande potere di Gesù attraverso i suoi numerosi miracoli (cfr. Gv 3, 2), Nicodemo si avvicina a Lui preso da un forte timore reverenziale. Infatti, Gesù doveva produrre in chi Gli stava intorno, un misto di attrazione e di timore. Siccome era la Grandezza, Egli incantava e nello stesso tempo imponeva rispetto. Per uno spirito colto ed intelligente come Nicodemo, la comprensione della grande figura del Maestro – soprattutto in seguito alle rivelazioni che Egli ha fatto, sintetizzate nei versetti precedenti – gli ha fatto immaginare il castigo di cui un tale Profeta sarebbe stato portatore. Da qui queste affermazioni di Nostro Signore contenute nei versetti 16 a 21, che mostrano chiaramente quanto Egli conduca alla Salvezza a condizione che vi siano fede e opere buone.
Il versetto in questione solleva una difficoltà, se paragonato ad altri passaggi, come per esempio: “Gesù allora disse:
‘Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi’” (Gv 9, 39).
“Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13, 26).
“Quando il Figlio dell’Uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi Angeli, Si siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25, 31).
Come intendere, allora, quanto Gesù afferma, che non è stato inviato per condannare il mondo? Chi ci risponde è San Giovanni Crisostomo: “Ci sono due venute di Gesù: quella che già si è realizzata, e quella che si dovrà realizzare. La prima non è stata per castigare i nostri peccati, ma per perdonarli. La seconda sarà, non per perdonare, ma per giudicare il male che avremmo fatto. Lui dice, parlando della prima: ‘Non sono venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo’. E della seconda: ‘Quando il Figlio dell’Uomo verrà nella sua gloria, porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra’ (Mt 25, 31.33). ‘E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna’ (Mt 25, 46). Anche la prima venuta potrebbe aver avuto come finalità un giudizio, con lo stretto rigore di giustizia. […] Ma, essendo indulgente, non ha voluto chiedere i conti, e ha offerto il perdono. Se allora avessi fatto giustizia, tutti sarebbero stati puniti: ‘Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio’ (Rm 3, 23), dice l’Apostolo”.6
18 “Chi crede in Lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio”.
È del tutto chiaro l’insegnamento che San Giovanni Crisostomo trae da questo versetto: “Il Salvatore disse questo anche perché l’incredulità è già un castigo, quando è ostinata e senza pensieri, giacché il fatto di essere privato di luce è, in se stesso, un grave castigo, oltre ad essere l’annuncio del castigo futuro. L’incredulo è come l’omicida, anche quando non sia stato castigato dal giudice, già è condannato dalla stessa natura del crimine. Allo stesso modo, Adamo è morto nel giorno in cui ha mangiato il frutto proibito”.7
19 “E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie”.
Lasciamo la parola a Sant’Agostino: “È necessario che tu detesti in te l’opera tua e ami in te l’opera di Dio. Quando comincia a dispiacerti ciò che hai fatto, allora cominciano le tue opere buone, perché condanni le tue opere cattive. Le opere buone cominciano col riconoscimento delle opere cattive. Operi la verità, e così vieni alla luce. […] Ma chi, dopo essere stato redarguito, continua ad amare i suoi peccati, odia la luce che lo redarguisce, e ne fugge, affinché non gli vengano rinfacciate le sue opere cattive che egli ama. Chi, invece, opera la verità, condanna in se stesso le sue azioni cattive; non si risparmia, non si perdona, affinché Dio gli perdoni. Egli stesso riconosce ciò che vuole gli sia da Dio perdonato, e in tal modo viene alla luce, e la ringrazia d’avergli mostrato ciò che in se stesso doveva odiare. Dice a Dio: ‘Distogli la tua faccia dai miei peccati’ (Sal 50, 11). Ma con quale faccia direbbe così, se non aggiungesse: ‘Poiché io riconosco la mia colpa, e il mio peccato è sempre davanti a me’ (Sal 50, 5)? Sia davanti a te il tuo peccato, se vuoi che non sia davanti a Dio. Se invece ti getterai il tuo peccato dietro le spalle, Dio te lo rimetterà davanti agli occhi; e te lo rimetterà davanti agli occhi quando il pentimento non potrà più dare alcun frutto”.8
20 “Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. 21 Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”.
Con saggezza, Maldonado asserisce che nessuno ama di più la virtù, la santità, le belle cerimonie liturgiche e la stessa Chiesa, delle anime in stato di grazia, pertanto, libere dal peccato. D’altro canto, “il peccato è rabbia e odia il medico e l’acqua che può guarirlo”.9
IV – Orazione finale
Gesù, nella sua infinita bontà, ha voluto il migliore degli effetti possibili per l’anima di Nicodemo nel corso di questa conversazione notturna, che è passata alla Storia e oggi si svolge davanti ai miei occhi, in questa Liturgia. Quando io mi pongo al posto di Nicodemo, sboccia nel fondo del mio cuore un forte desiderio di adorazione, pentimento e supplica, di fronte a questa Luce che è venuta al mondo.
“Non permettere, o mio Gesù, che io faccia parte di coloro che odiano la luce. Fa’ in modo che io creda ‘nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio’. Per Maria Santissima, io Ti chiedo, concedimi la grazia di un profondo dolore per le mie mancanze, considerandomi il maggiore di tutti i peccatori, senza mai perdere la fiducia nell’illimitato valore del tuo preziosissimo Sangue. Aumenta la mia speranza, la mia fede e il mio amore verso di Te, affinché, nella tua luce, io possa venire a contemplare la Luce per tutta l’eternità. Amen”.
1) Cfr. SAN CIRILO DI ALESSANDRIA. In Ioannis Evangelium. L.II, c.1: MG 73, 250-251. 2) Cfr. EUTIMIO, apud MALDONADO, SJ, Juan de. Comentarios a los Cuatro Evangelios. Evangelio de San Juan. Madrid: BAC, 1954, v.III, p.203 3) SANT’AGOSTINO. In Ioannis Evangelium. Tractatus XII, n.11. In: Obras. Madrid: BAC, 1955, v.XIII, p.351. 4) MALDONADO, op. cit., p.207. 5) Cfr. Idem, p.208. 6) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO. Homilía XXVIII, n.1. In: Homilías sobre el Evangelio de San Juan (1-29). 2.ed. Madrid: Ciudad Nueva, 2001, v.I, p.326-327. 7) Idem, p.327-328. 8) SANT’AGOSTINO, op. cit., n.13, p.353; 355. 9) MALDONADO, op. cit., p.211.
Ancora nessun commento