In quel tempo, disse Gesù: 11 “Io sono il Buon Pastore. Il Buon Pastore dà la propria vita per le pecore. 12 Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13 perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14 Io sono il Buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono Me, 15 così come il Padre conosce Me e Io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle Io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17 Per questo il Padre Mi ama: perché Io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno Me la toglie: Io la do da Me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10, 11-18).
“Il Signore è il mio Pastore”
A proposito della guarigione del cieco nato e della polemica che ne è derivata tra i farisei, Gesù si è rivelato come il Buon Pastore, che rischia la vita per le sue pecore. Questa è stata una delle occasioni nelle quali Egli ha espresso in modo più toccante il suo amore infinito per noi.
I – Un simbolo del Divino Redentore
Dio, nella sua inesauribile sapienza, ha disposto in perpetuo ordine e armonia tutti gli esseri, rendendo molte volte gli inferiori simboli dei superiori. Così, il sesto giorno della sua opera, creò tra le altre la specie ovina, affinché, in futuro, l’agnello servisse da titolo al Redentore, l’Agnello di Dio. Conferì caratteristiche proprie alle greggi di pecore, così come al rapporto tra queste e i loro pastori, per facilitare la comprensione dell’amore tra il Fondatore della Chiesa e i suoi fedeli.
Nella civiltà di oggi, eccessivamente industriale e pianificata, procura una gradita sorpresa incontrare nei campi greggi che ci ricordano quella società pastorale dei primi secoli della Storia. Estranei alle trasformazioni tecniche e sociali, questi animali continuano a comportarsi come allora. Impressiona osservare la loro sensibilità alla voce o al fischio della loro guida.
Una volta, mentre mi trovavo in Spagna, in un ambiente campestre nelle vicinanze del Palazzo dell’Escorial, non molto distante da Madrid, assistetti a un “sermone” diretto da un pastore al suo gregge. Le pecore ascoltavano con esemplare attenzione gli ammonimenti su ciò cui avrebbero dovuto badare durante la permanenza in quel posto. Terminata la “predica”, egli le disperse con un semplice battito di mani. Molto più tardi, le convocò tutte con un richiamo – chiamando addirittura alcune di loro per nome – e fece riprendere loro la strada, verso l’ovile. Il fatto mi emozionò e mi fece ricordare il famoso Vangelo del Buon Pastore: “le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce” (Gv 10, 4).
Pedagogia divina
Tra i vari istinti dell’uomo, il più forte e importante è quello della socievolezza. Aristotele1 affermava che, per natura, l’essere umano è un animale politico, ossia, socievole. Il desiderio – e la necessità – degli uomini di relazionarsi l’uno con l’altro li porta a unirsi, dando seguito al piano divino della creazione, poiché Dio ci ha dato questo istinto proprio per stimolare la costituzione della vita in società. Ma non è stata questa l’unica ragione; prima di tutto, Egli aveva come fine il suo intimo desiderio di entrare in contatto con le anime.
Come spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica, Dio “vuole comunicare la propria vita divina agli uomini da Lui liberamente creati, per fargli figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando Se stesso, Dio vuole rendere gli uomini capaci di risponderGli, di conoscerLo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da se stessi”.2 Per portare avanti il “progetto divino della Rivelazione”, la “pedagogia divina” è consistita, fin dai primordi dell’umanità, nel preparare l’uomo per tappe a questo rapporto con Lui, il cui apice sarebbe avvenuto nell’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo.3
Di questa pedagogia faceva parte essenziale il linguaggio simbolico. Dio, per esprimere i vincoli da stabilire tra Gesù e noi, magari non poteva scegliere un simbolo migliore della figura del pastore col suo gregge.
Già nei primordi dell’Antico Testamento, c’è un’insistenza sulla figura del gregge e del pastore, dalla famiglia di Adamo (cfr. Gen 4, 2.4.20), nella persona di Abramo (cfr. Gen 12, 16), di Lot (cfr. Gen 13, 5) e dello stesso re Davide (cfr. I Sam 17, 34-35). A poco a poco, la conduzione del gregge diventa simbolo delle guide del popolo di Dio, al punto che la Scrittura si riferisce a loro con queste parole: “Vi darò pastori secondo il mio cuore, che vi guideranno con scienza e intelligenza” (Ger 3, 15). O come in questo passo: “Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, profetizza e riferisci ai pastori: Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e son preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte mie pecore su tutti i monti e su ogni colle elevato, le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” (Ez 34, 2-6).
Tuttavia, la figura del pastore assume la pienezza del suo significato nell’Essere per eccellenza, lo stesso Dio: “Dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così i pastori non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto. Perché dice il Signore Dio: Ecco, Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così Io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d’Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d’Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e Io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. […] Voi, mie pecore, siete il gregge del mio pascolo e Io sono il vostro Dio. Oracolo del Signore Dio” (Ez 34, 10-16.31).
Gesù, il Buon Pastore
Infine, sarebbe apparso nei cieli della Storia il Pastore archetipico, il Buon Pastore: “Io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda: farò giustizia fra pecora e pecora. Susciterò per loro un pastore che le pascerà […]. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore” (Ez 34, 22-23).
II – Il Pastore per eccellenza
Gesù è il Pastore che ha dato la vita per il suo gregge; inoltre, è sempre disposto ad andar in cerca della pecora smarrita e, avendola trovata, ritornare felice e contento con lei sulle spalle; a tirarla fuori dal fossato, anche se è giorno di sabato. Chi di noi può affermare di non essere mai stato oggetto della ricerca del Buon Pastore, a volte anche in circostanze tragiche? Chi almeno una volta non si è sentito una pecorella smarrita, che è stata ricondotta all’ovile sulle spalle di Gesù?
È in questa prospettiva che si inserisce il Vangelo della 4ª Domenica di Pasqua.
Le circostanze: la guarigione del cieco nato
Le parole pronunciate da Gesù si collegano ad un episodio precedente, denso di emozionante carica simbolica. Inizia con Gesù che concentra lo sguardo su un cieco di nascita. Era comune tra i Giudei ritenere che ci fosse una relazione tra le infermità e i peccati commessi dal malato, o dai suoi parenti. Per questo i discepoli interrogarono il Signore: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9, 2). La risposta ferma di Gesù e lo svolgersi degli avvenimenti successivi getteranno luce per intendere meglio il Vangelo di oggi: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (Gv 9, 3). Avendo fatto questa profetica affermazione, prese l’iniziativa di guarire il cieco.
Come non poteva che essere, il portentoso miracolo causò commozione tra tutti i conoscenti del miracolato, portandoli a desiderare di incontrare “quell’Uomo che Si chiama Gesù” (Gv 9, 11).
Il passaparola popolare crebbe al punto da condurre il beneficato davanti ai farisei. Narrato l’accaduto, si constatò che la guarigione era stata realizzata nella giornata di sabato. Questo si configurava come un grande crimine, condannato dai farisei. Un violatore della legge del sabato – pertanto, un peccatore – non poteva essere di Dio! Ecco, finalmente, trovata una grave accusa contro quell’Uomo che tanto li turbava. Tuttavia, questa conclusione entrava in collisione con una domanda sollevata da altri farisei: come spiegare che un tale prodigio potesse esser praticato da un peccatore?
Nel dissenso pieno di perplessità, la speranza di trovare una via d’uscita fece sì che i malvagi si rivolgessero allo stesso ex cieco. Magari costui poteva dire qualcosa che screditasse interamente Gesù. Tuttavia, si illudevano completamente. Quella era una pecora che conosceva la voce del suo Pastore, e così non si lasciava ingannare da ladri e briganti (cfr. Gv 10, 8). Con convinzione, affermò che Nostro Signore era un profeta. Imbarazzati, gli inquisitori decisero di interrogare i genitori di quell’uomo, nella speranza di provare che aveva sempre avuto una vista normale. Insomma, squalificare la testimonianza è una via d’uscita ben nota a quelli che si trovano in difficoltà. Tuttavia, ancora una volta non riuscirono nel loro intento, poiché la coppia confermò che il loro figlio era cieco dalla nascita, e saggiamente evitò qualsiasi altro commento sull’accaduto: “[Essi] avevano paura dei giudei; infatti i giudei avevano già stabilito che, se uno Lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: ‘Ha l’età, chiedetelo a lui’” (Gv 9, 22-23).
L’interrogatorio finale, in un ambiente di ansia e frode, finì per suscitare l’indignazione dei farisei, perché andavano a scontrarsi contro la robustezza di fede e l’onestà dell’ex cieco. Avendo essi dichiarato di non sapere di dov’era Gesù, “rispose loro quell’uomo: ‘Proprio questo stupisce, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, Egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla’. Gli replicarono: ‘Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?’. E lo cacciarono fuori” (Gv 9, 30-34).
La Chiesa è l’ovile, la cui Porta è Cristo
Dopo questa ingiusta conclusione del suo interrogatorio, non molto tempo dopo l’antico cieco incontrò nuovamente Gesù. Questi, conoscendo dall’eternità quei fatti, gli chiese se credeva nel Figlio di Dio. Davanti a non pochi curiosi, quell’uomo non solo affermò di credere in Nostro Signore, ma anche si prosternò davanti a Lui e Lo adorò.
Questo atteggiamento, bello e virtuoso, lasciò ammutolito il pubblico presente. Il Divino Maestro approfittò dell’occasione per trarre profitto dall’episodio, ed affermò: “E’ per un giudizio che Io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi” (Gv 9, 39).
A partire da questo istante, entrando in contesa aperta con i farisei, Gesù passa a sviluppare la parabola narrata nel Vangelo di oggi. Comincia col riferirsi a un’abitudine comune, molto nota tra i Giudei: il ladro non entra dalla porta dell’ovile, ma “vi sale da un’altra parte” (Gv 10, 1). Il pastore, al contrario, utilizza soltanto questa porta, facendo sentire la sua voce alle pecore. Non avendo i farisei inteso questa allegoria, il Divino Maestro dichiarò che era, Lui stesso, la Porta dell’ovile (cfr. Gv 10, 9).
Commentando brillantemente questo passo del Vangelo, la Costituzione Dogmatica Lumen gentium afferma: “La Chiesa infatti è un ovile, la cui Porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10, 1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il Pastore (cfr. Is 40, 11; Ez 34, 11ss), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il Buon Pastore e Principe dei pastori (cfr. Gv 10, 11; I Pt 5, 4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10, 11-15)”.4
Un solo gregge e un solo pastore
Per i precedenti e per tutto il contesto nel quale avviene, la presente parabola ci fa comprendere la divina eccellenza del Buon Pastore. Gesù non solo conosce ma effettivamente anche ama le sue pecore da tutta l’eternità. Lui le ha create, una ad una, e le ha redente col suo stesso Sangue, elevandole a partecipare alla sua vita. Inoltre, ha lasciato Se stesso come alimento nell’Eucaristia fino alla consumazione dei secoli. Il suo comportamento verso il gregge raggiunge estremi inimmaginabili persino per il più perfetto degli Angeli.
Attraverso la fede e in virtù della grazia, le sue pecore, per reciprocità, Lo conoscono, in Lui sperano e operosamente Lo amano. In tal modo, il Buon Pastore e le pecore si rapportano in maniera simile al convivio esistente tra le tre Persone della Santissima Trinità, in un solo Dio. Questa è la principale ragione del suo desiderio-profezia: “diventeranno un solo gregge, un solo pastore”.
Attraverso la consegna della propria vita, sulla quale Egli ha un potere assoluto, Gesù otterrà un’unità tra il Pastore e l’ovile.
Anche noi dobbiamo esser pastori…
Dio ha disposto che le figure dell’agnello, del gregge e del pastore facilitassero all’uomo la comprensione della necessità dell’apostolato. Nella loro sostanza simbolica, esse rafforzano principi enunciati nella Sacra Scrittura: “e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo” (Sir 17, 14).
In relazione a Gesù, siamo agnelli; è nostro obbligo morale e religioso riconoscere la sua voce e seguire i suoi passi. Ma siamo anche molte volte chiamati a rappresentare il ruolo di pastori con i nostri fratelli, un dovere questo di carità, come ci insegna San Pietro: “Ciascuno secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio” (I Pt 4, 10). Se così non procediamo, saremo giudicati come il servo cattivo e pigro della parabola dei talenti (cfr. Mt 25, 14-30). Il passo del Vangelo che abbiamo appena analizzato costituisce un pressante appello alla partecipazione effettiva, consacrata e entusiastica di tutti i fedeli nei compiti di apostolato. L’obbligo di evangelizzare non è esclusivo dei religiosi, ma anche di ogni battezzato. Grazie a questo Sacramento, ognuno di noi è incorporato in una società spirituale – la Santa Chiesa Cattolica – retta dalla Comunione dei Santi, ricevendo una vocazione generale di apostolato e una missione individuale di espandere il Regno di Cristo. Più specialmente sono coinvolte in questo le associazioni e i movimenti cattolici.
Per la realizzazione di quest’attività, il campo di lavoro più indicato è la parrocchia. In altri termini, niente di più lodevole ed efficiente che contribuire al rinvigorimento delle nostre parrocchie, sforzandoci di includere in questo ambito tutti coloro che siano alla nostra portata.
Ricorriamo alla Madre del Buon Pastore
Maria è la Stella della Nuova Evangelizzazione, ci ricordava sempre Papa Giovanni Paolo II. Chi desideri avere successo in questa sublime impresa di attrarre il suo prossimo all’ovile di Gesù Cristo, non può non collocare il suo lavoro e la propria persona sotto la protezione e orientamento della Madre del Buon Pastore.
Nelle catacombe di Santa Priscilla, a Roma, si può vedere, ben conservato, un dipinto che rappresenta Nostro Signore come il Buon Pastore. Significativamente, Egli porta sulle spalle la pecora smarrita e cammina in direzione di sua Madre, nelle cui mani va a consegnarla. Chiediamo al Cuore Materno e Immacolato di condurci dal Buon Pastore, per poter così compiere con santità i nostri doveri di apostolato verso i nostri fratelli.
1) Cfr. ARISTOTELE. Politica. L.I, c.II, 1253a. 2) CCE 52. 3) Cfr. CCE 53. 4) CONCILIO VATICANO II. Lumen gentium, n.6.
Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” da Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.
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