Gesù guarisce la suocera di Pietro

Gesù guarisce la suocera di Pietro

Vangelo

 29 E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. 30 La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. 31 Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. 32 Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. 33 Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34 Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. 35 Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36 Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. 37 , Lo trovarono e , gli dissero: “Tutti ti cercano!”. 38 Egli disse loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. 39 E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni (Mc 1, 29‑39).

 Gesù, fonte della temperanza

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

 Il dolore, questo male inevitabile che accompagna ogni uomo, trova rimedio solo nell’azione sommamente temperante del Divino Maestro.

 I – Il mistero del dolore

 La medicina ha raggiunto, ai giorni nostri, un successo straordinario, curando malattie anticamente considerate mortali. Una volta era impensabile un trapianto di organi – cuore, fegato, reni –, mentre oggi è fatto con relativa frequenza e facilità. Quante meraviglie la scienza ha realizzato! Tuttavia, eliminare del tutto le malattie e il dolore è impossibile.

 Se non è fattibile estirpare i mali fisici, lo stesso accade, e molto di più, con i mali spiritua: ci vediamo spesso attorniati da delusioni, tragedie, dolori, incertezze, perplessità, risse, litigi che distruggono le famiglie… La vita è piena di contrarietà e non ci è dato fuggire totalmente da esse, né esiste denaro che compri una completa soddisfazione su questa Terra. Come reagire, allora, di fronte al dolore?

L’uomo ha necessità di soffrire

 Pensiamo alla felicità che l’uomo aveva nel Paradiso. Là, dove i vegetali e gli esseri inanimati stavano sotto il suo dominio, e gli animali gli obbedivano; mirabilmente equilibrato, egli godeva di un piacere enorme, ineffabile, pienissimo, perché non esisteva niente che lo facesse soffrire, ma c’erano solo motivi di gioia. Non esistevano temporali, il clima era sempre ameno, favorito da brezze soavi e serene, e la tranquillità della natura era immagine della calma temperamentale dell’uomo, ornato dal dono d’integrità, grazie al quale era libero da ogni movimento disordinato dei suoi appetiti sensibili. Pertanto, non conosceva il dolore.

 In questa prospettiva, immaginiamo che Adamo ed Eva non fossero caduti, e nel Paradiso Terrestre si fosse sviluppata una società in cui le persone si rapportassero in armonia, vivendo nel piacere perfetto e senza sperimentare patimento alcuno. Supponiamo, anche, che in quest’ambiente s’introducesse un individuo con peccato originale: egli avrebbe convissuto con gli altri senza la minima possibilità di malinteso con nessuno, essendo trattato con garbo e considerazione, in un benessere colossale in quanto oggetto di ogni cura, attenzione e affetto. Tuttavia, sebbene sembri un’assurdità, quest’uomo avrebbe una sofferenza spaventosa… la sofferenza di non soffrire!

 Cerchiamo ora di concepire un’altra situazione: un principe che, in ogni istante, fosse accudito in tutte le sue velleità, senza margine per nessun fastidio. Se lui desiderasse mangiare, gli porterebbero ogni specie di prelibatezze; se sognasse un letto, avrebbe a disposizione, immediatamente, un materasso di piume d’oca d’ineguagliabile soavità; se sentisse sete, gli offrirebbero le bibite più raffinate esistenti nel mondo, alla temperatura che lui volesse! Bene, sulla base degli insegnamenti degli spiritualisti cattolici si conclude che questo personaggio ipotetico, e chiunque altro simile a lui, sarebbe, più di nessun altro, preso da una tremenda amarezza d’animo. Perché? Perché la creatura umana, dopo il peccato originale, ha sete di sofferenza.1

 La necessità di esercizio e di movimento del nostro corpo non è che un riflesso, posto da Dio, di un’analoga necessità dello spirito nei riguardi del dolore. Quando uno, per esempio, si rompe un braccio e si vede obbligato a immobilizzarlo per un certo tempo, tolto il gesso prende paura nel costatare che il braccio è dimagrito ed è diventato flaccido. Avrà bisogno di fare fisioterapia, affinché il membro recuperi la forza. Anche l’anima, senza la sofferenza, diventa scialba, langue e perde il vigore.

 Il senso cattolico del dolore

 Sbagliano, pertanto, le scuole filosofiche che cercano di spiegare la sofferenza in maniera diversa dalla visione cattolica, affermando che essa deve essere evitata a ogni costo o essere assunta con spirito autodistruttivo. L’unica Religione che affronta bene il dolore è la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Essa mostra quanto il dolore sia indispensabile e debba esser compreso. Noi lo comprendiamo realmente soltanto guardando a Nostro Signor Gesù Cristo in Croce. Egli Si è incarnato con l’obiettivo di riparare il peccato commesso dall’umanità, di restaurare la gloria di Dio e l’ordine; e ha voluto farlo attraverso i tormenti della sua Passione.

 Tutti noi pecchiamo nei nostri progenitori Adamo ed Eva, oltre a incorrere in numerose colpe attuali durante la vita, attentando alla gloria del Creatore. Ora, sappiamo che il Settimo Comandamento non si viola solamente rubando il denaro o la proprietà altrui, ma anche rifiutando la gloria che a Dio appartiene. E se, nel primo caso, affinché sia perdonata la trasgressione, si esige la restituzione di quello che si è rubato, non è meno imperativo restituire a Dio la gloria che il peccato Gli ha negato.

 È esattamente questa la prova alla quale Dio sottomette le creature intelligenti, Angeli e uomini: quella di non giudicare mai i loro successi e conquiste frutto dei loro sforzi, reputando se stessi la fonte delle qualità concesse, siano esse energia, intelligenza o capacità di lavoro. Invece, dobbiamo riconoscere che i meriti vengono da Dio, poiché è Lui che ci dà tutto, sia in campo naturale, sia, soprattutto, in quello soprannaturale, come disse Nostro Signore: “Senza di Me non potete far nulla” (Gv 15, 5).

 In questo senso, il dolore è un mezzo per spingere l’anima a restituire quello che ha ricevuto e superare bene la prova, mettendo in luce quanto siamo contingenti davanti a Dio, facendoci volgere a Lui. Nei successi, al contrario, è facile chiuderci in noi stessi e, ciechi di autosufficienza, dimenticare il Creatore, finendo per staccarci da Lui. “La malattia e la sofferenza” – assicura il Catechismo – “sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia, l’uomo fa esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. […] La malattia […] può rendere la persona più matura, la può aiutare a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale, per volgersi verso ciò che lo è. Molto spesso, la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a Lui”.2

 Inoltre, la sofferenza è il miglior purificatore delle nostre anime, poiché, attraverso di essa, ci pentiamo delle nostre colpe, ci confessiamo miserabili e mendicanti della grazia e del perdono divino. “Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza”.3

 Il ruolo della virtù della temperanza

 Per rimediare, in un certo modo, alla perdita del dono d’integrità che l’uomo possedeva nel Paradiso e alle inevitabili sofferenze che da questa privazione sono derivate, esiste una virtù che, introdotta nell’anima col seguito di tutte le altre che ci sono infuse nel Battesimo, si caratterizza come una delle quattro virtù cardinali: la temperanza. Essa “indica un certo temperamento, o moderazione, posto negli atti e nelle passioni umane dalla ragione […]. [E] si occupa, prioritariamente, delle passioni tendenti ai beni sensibili, cioè, dei desideri e dei piaceri e, conseguentemente, delle tristezze causate dall’assenza di questi beni”.4

 Essa è, infatti, la virtù che equilibra gli stadi dello spirito e dà all’uomo il benessere e la felicità nel dolore, o l’autocontrollo nell’euforia della gioia. Così, essa conferisce all’anima uno straordinario dominio di sé.

 In mezzo ai dolori, Giobbe cercala sua consolazione in Dio

 Questi insegnamenti ci preparano a comprendere meglio la Liturgia della 5a domenica del Tempo Ordinario, la cui prima lettura (Gb 7, 1‑4.6‑7) è un espressivo brano del Libro di Giobbe.

 La bella storia di quest’uomo giusto ci narra che, essendosi satana presentato davanti all’Onnipotente, quest’ultimo gli chiese se avesse posto l’attenzione su Giobbe, suo servo, “uomo integro e retto, timoroso di Dio e alieno dal male” (Gb 1, 8); e il demonio rispose che quelle virtù si dovevano al fatto che Giobbe non era stato ancora tentato. Il Signore, allora, l’autorizzò a trattare Giobbe come voleva, dando, tuttavia, quest’avvertimento: “Soltanto risparmia la sua vita” (Gb 2, 6). La dura prova di Giobbe fu, dunque, permessa dall’Altissimo, ma promossa direttamente dal demonio. Di conseguenza, egli perse i suoi dieci figli, tutte le sue proprietà e animali, e fu colpito da una tremenda “ piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo” (Gb 2, 7). In una situazione così dolorosa, Giobbe si sedette sopra la cenere e si grattò con un coccio di tegola le sue numerose ferite (cfr. Gb 2, 8).

 E successe di peggio: perse l’appoggio delle sue cerchie sociali, gli amici interpretarono la sua disgrazia come una punizione, ritenendo che avesse deviato dai Comandamenti del Signore, e la sua stessa sposa, invece di proteggerlo, si schierò contro di lui. Completamente isolato, non potendo aprire la sua anima nemmeno a coloro che lo circondavano, si sentiva abbandonato da Dio, senza sapere qual era il motivo. Per questo Giobbe fa questa esclamazione, raccolta dalla prima lettura: “Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra?” (Gb 7, 1). In seguito, narrò i suoi dolori con immagini vive, molto caratteristiche degli orientali: “Così a me son toccati mesi d’illusione e notti di dolore mi sono state assegnate. […] Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni […] sono finiti senza speranza” (Gb 7, 3‑4.6).

 Ciò nonostante, Giobbe non cadde nella disperazione, ma con fiducia cercò la sua consolazione dove, di fatto, l’avrebbe trovata: in Dio! “Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene!” (Gb 7, 7). Se lui ha invocato il Signore, è perché la sua anima aveva un mezzo per sostenersi: la virtù della temperanza… Egli era temperante.

 II – L’azione di Gesù ristabilisce l’ordine, l’equilibrio e la pace

 Nel Vangelo di oggi troviamo Gesù mentre guarisce prima la suocera di Pietro e, dopo, allevia dai suoi mali una moltitudine che aveva circondato la casa dove Egli alloggiava. Che ci sia in questo una contraddizione? Nostro Signore agiva così perché riteneva che il dolore dovesse essere eliminato? Analizziamo il testo di San Marco in cerca di una risposta.

29 E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. 30a La suocera di Simone era a letto com la febbre…

 Il Divino Maestro aveva cominciato da poco il suo ministero pubblico, e già vediamo come questo fosse estenuante. Andato, con Giacomo e Giovanni, dalla sinagoga alla casa di Simone e Andrea, si direbbe che quello fosse un luogo dove Egli avrebbe potuto stare a suo agio, lontano dal flusso della gente; invece no, la suocera di Pietro “era a letto con la febbre”, e Gesù, sempre sollecito a fare il bene a tutti, non Si fermò per riposare e subito andò da lei.

 La febbre delle passioni

 Sappiamo che chi ha la febbre molto alta, in genere perde il controllo di sé, cioè, la capacità di avere la sua “anima in mano” – “Anima mea in manibus meis semper” (Sal 119, 109) –, perché essa gli toglie, anche, la possibilità di usare bene la virtù della temperanza. I Padri della Chiesa commentano che questa febbre fisica della suocera di Pietro è un simbolo delle passioni. “In questa donna” – scrive Sant’Ambrogio – “[…] era raffigurata la nostra carne, malata per le diverse febbri dei peccati, e che ardeva di trasporti smisurati di varie passioni”.5 San Girolamo concorda con questo pensiero: “Ognuno di noi è colpito dalla febbre. Quando mi lascio prendere dall’ira, soffro di febbre. Quanti sono i vizi, tanta è la diversità delle febbri”.6 E San Rabano Mauro aggiunge: “Ogni anima che vive sotto il dominio della concupiscenza della carne si trova come chi ha la febbre”.7

 La febbre spirituale costringe a letto il febbricitante, rendendolo inutile al lavoro e inabile ad agire, perché tutto il suo essere si dedica all’inclinazione verso il male, ansioso di voluttà e, in questo modo, gli manca il coraggio di servire Dio e gli altri. Quante persone diventano lassiste nel loro apostolato perché hanno perso la nozione della grandezza della vocazione, mentre il dinamismo della loro anima è diretto a una passione sfrenata! Sì, infatti, quando uno è chiamato agli orizzonti ampi e profondi della lotta per la sconfitta dell’impero di Satana sulla Terra e non corrisponde a quest’appello, finisce per dedicarsi alle più infime e trascurabili inezie, e con questo riesce a soffocare la sua coscienza…

Il Divino Maestro prende l’iniziativa

30b …e subito gli parlarono di lei. 31a Egli si avvicinò…

 È da notare che Nostro Signore fu avvertito sullo stato della suocera di Pietro, nella speranza che operasse un miracolo. Non era necessario che Glielo dicessero, poiché Lui era già a conoscenza del fatto da tutta l’eternità e poteva, con la sua autorità assoluta, guarirla a distanza. Ma Lui Si mise in balia di una semplice insinuazione – visto che, per non importunarLo, non formularono neppure la richiesta – e non disse di no. Anzi, dato che era amico di quella famiglia e per i vincoli che Lo univano a San Pietro, fu pronto ad aiutare; udita la notizia, prese subito l’iniziativa. Tale è il rapporto sociale tra gli uomini che si stimano.

 In quell’epoca, secondo le norme giudaiche – e persino dei popoli pagani –, era inconcepibile che un qualsiasi uomo entrasse in camera di una donna costretta a letto, anche se era anziana. Per la sua missione di guarire, però, Nostro Signore ruppe questo severo costume e “Si avvicinò”.

 Da parte nostra, quando osserviamo qualcuno con le passioni in ebollizione, che segue una via sbagliata, non ci rallegriamo del male altrui! Abbiamo l’obbligo di “raccontarlo a Gesù” e implorarLo di guarirlo. Se intercediamo per gli altri, il Signore Si avvicinerà a loro.

 La mano di Gesù è sempre tesa a guarirci

31b …la fece alzare, prendendola per mano.

 Forse alcuni dei presenti avranno immaginato che il Salvatore fosse andato soltanto a fare una visita alla malata, per incoraggiarla un po’. Quale non sarà stata la grande sorpresa di tutti quando la prese per mano, e lei, che prima ardeva di febbre, si sentì con una nuova energia e si alzò! La toccò perché voleva che fosse bem chiaro che era Lui l’Autore di questa guarigione, e non, per esempio, uno spirito, secondo le superstizioni che circolavano tra quella gente. Se Lui, da lontano, se fosse limitato a ordinare “Alzati”, essi forse avrebbero dubitato.

 Allo stesso modo, questa mano divina che strinse quella della suocera di Pietro è sempre tesa a nostra disposizione! Sì, nostro Signore Gesù Cristo tratta con considerazione e affetto coloro che hanno l’anima aperta e non Gli frappongono ostacoli, ed è pronto a entrare nella casa dove saremo prostrati da una qualsiasi malattia, per prendersi cura di ognuno di noi, come se esistesse solo lui. Quante miserie, debolezze e capricci pesano nel nostro intimo!

 Nonostante questo, Egli non ha repulsione di noi e non ritira mai la mano, per quanto pessima sia la nostra situazione. Ecco la fiducia che dobbiamo avere: tutto può esser risolto da Chi ci dà la mano!

 L’energia per servire Dio viene da Lui

31c La febbre la lasciò ed ella li serviva.

 Dopo essere stata guarita, subito la suocera di Pietro “si mise a servirli”. Ora, tale era il disprezzo per la donna in quei tempi antichi, che mai ella avrebbe potuto servire alla mensa degli ospiti.8 Questa funzione era riservata agli schiavi o servi. Nostro Signore, invece, permette di esser assistito da questa donna, per far capire che portava costumi sociali nuovi. Uomo-Dio, Egli avanzava contro corrente e invertendo la mentalità arrogante e vessatoria che regnava, non solo in Israele, ma anche tra i greci, romani e altri popoli.

 Talmente istantanea fu la guarigione, che la suocera di Pietro pareva non aver patito il benché minimo acciacco. Lo stesso accade quando uno, tormentato dalla febbre delle sue passioni, “stringe la mano” di Gesù: l’inedia e l’abbattimento scompaiono e il coraggio gli è infuso. Questo mostra anche come l’energia per l’esercizio di una missione soprannaturale o per difendere una causa giusta provenga da Dio. Pertanto, non ci assalga mai l’insicurezza; se i nostri obiettivi sono rivolti all’eternità, avremo la forza, l’impulso e il sostegno che ci faranno andare avanti, fino alla fine. Grande vantaggio ci sarà se eviteremo di pensare alla vita passata. Il Vangelo non riferisce nessuna parola della miracolata sul periodo in cui era rimasta a letto. No, il Maestro stava lì e lei si mise a lavorare! Ora non le importava più della febbre o della malattia, tutto era dimenticato.

 Cerchiamo il tabernacolo!

32 Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.

33 Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34a Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni.

 Se San Marco – così sintetico e anche un po’ minimalista – scrisse “tutta la città”, è prova che è stato proprio così. Grandi commentatori9 sono concordi sul fatto che l’espressione “molti”, da lui usata, significhi che Nostro Signore si prese cura di tutti.

 La fama di Gesù si era sparsa e ognuno voleva avere un contatto con Lui per ricevere qualche beneficio. Possiamo ben immaginare la scena del popolo che grida e implora l’ausilio del Divino Taumaturgo, e Lui che, calmo e sublime, restituiva tutti la salute a numerosi ciechi, storpi, paralitici, lebbrosi, febbricitanti, senza ignorarne uno solo…

 Quanto ai posseduti, ricordiamoci che sono quelli il cui corpo è preso dal demonio – o, in certi casi, da un gran numero di questi –, di modo che perdono il dominio di sé. Impossibilitati a governarsi, assomigliano a un’automobile controllata da un assalitore, mentre il conducente – cioè, l’anima – è spinto in un angolo del veicolo. I posseduti si trovano, di conseguenza, in uno stato di squilibrio e disordine. Anche loro il Signore ha liberato e non è rimasto nemmeno un demonio da espellere.

 Quante volte noi, invece di circondare la casa dove sta Gesù, come hanno fatto gli abitanti di Cafarnao, ci chiudiamo in noi stessi, dando al demonio l’opportunità di dialogare com noi per tutto il tempo che vuole. Se, al contrario, cerchiamo Gesù nel tabernacolo, il tentatore si manterrà a distanza e otterremo lì la soluzione alle nostre difficoltà.

 Tale è l’eredità che ci lasciano i Santi. San Tommaso d’Aquino, per esempio, quando, in mezzo all’elaborazione delle sue opere, aveva bisogno di risolvere un problema particolarmente arduo, interrompeva il lavoro, accostava la testa alla parete del tabernacolo e vi rimaneva fino a che chiariva la questione.10 Lui stesso – uomo intelligentissimo, che citava a memoria le Sacre Scritture – assicurava di aver appreso molto di più nell’adorazione al Santissimo Sacramento o ai piedi del Crocefisso che con tutti gli studi realizzati nel corso della vita.11

 Il demonio non può annunciare il Vangelo

34b ma non permetteva ai demòni di parlare, perché Lo conoscevano.

 Si direbbe che convenisse a Nostro Signore che i demoni facessero propaganda di Lui, poiché avrebbero contribuito a incrementare la sua fama. Tuttavia, Egli impediva loro di parlare per due ragioni: primo, perché non voleva il demonio nel ruolo di apostolo, una volta che quest’ultimo deve essere santo e vivere quello che predica, mentre gli spiriti malvagi devono esser gettati fuori, senza indugio; secondo, perché voleva preparare le moltitudini alla sua futura Passione. Infatti, facendo tacere i demoni su “chi Lui era”, i presenti si sarebbero domandati perché impartisse tale ordine e subito avrebbero capito che era perché c’era gente odiosa, desiderosa di ucciderlo. Questo li disponeva a comprendere il martirio della Croce.

Una lezione di distacco e serietà di fronte alla propria missione

35 Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36 Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. 37 Trovatolo, gli dissero: “Tutti ti cercano!”. 38 Egli disse loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini!”

  Secondo il concetto di chi è vanitoso, quello sarebbe stato il momento di assaporare tutto il successo del giorno precedente. Ma Gesù, alzatoSi di primo mattino, andò in un luogo solitario a pregare, perché Lui, nella sua umanità giustissima, non Si vantava né Si lasciava dominare da alcuna passione.

 Gli Apostoli, non appena si svegliarono, uscirono a cercarLo, in un atteggiamento adatto a servire da modello per noi: cercare sempre Cristo dove Lui è. Tuttavia, le loro parole, nel trovarLo, riflettono il desiderio di trarre profitto dalla situazione e i loro sogni di conquista. Essi erano abbagliati da un miraggio creato a proposito dei miracoli operati dal Maestro e, dopo il primo flash vocazionale e religioso, avevano cominciato a vederLo da un punto di vista politico. Di fronte al successo ottenuto a Cafarnao, città molto centrale, piena di animazione e commercio, volevano “industrializzare” Nostro Signore e organizzare un grande movimento di opinione pubblica per impossessarsi del potere, restaurare la supremazia dei giudei sugli altri popoli e cambiare la storia di Israele. Ma, contrariamente ai loro aneliti, e di là da ogni previsione – in maniera da non esser controllato da quei discepoli su troppi terreni –, Gesù decise di partire dalla popolosa Cafarnao per la periferia. In questo modo li educava ad accettare di andare in qualunque parte, senza soffermarsi ad assaporare i trionfi. Che lezione di distacco e di governo delle passioni! Com’era loro difficile conformarsi a queste nuove prospettive!

 Inoltre, avendo già compiuto lì il suo ministero, Gesù era desideroso di stare a contatto con tutti, poiché era venuto per tutti, mostrando, in questo dettaglio, la responsabilità e la serietà con cui ognuno deve affrontare la sua missione specifica.

 Un’azione sommamente temperante

38b “perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. 39 E andò per

tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

 Negli episodi narrati in questo Vangelo, vediamo nostro Signore Gesù Cristo – la Temperanza e la Santità in essenza – esercitare un’azione sommamente temperante attraverso la guarigione e l’esorcismo, ristabilendo nelle anime afflitte l’ordine, l’equilibrio e la pace. E con lo strumento della sua divina parola trasmetteva la verità della Rivelazione, metteva in luce il valore della virtù della temperanza e promuoveva la sua pratica.

 La parola, quando ben impiegata e proferita seguendo il soffio dello Spirito Santo, possiede una forza esorcistica straordinaria per armonizzare lo spirito con Dio. Per esempio, se uno dà un giudizio errato riguardo a sé o agli altri, sia sopravvalutandosi, sia recriminando in forma autodistruttiva – entrambi grandi e pericolose follie –, il consiglio di un compagno o di un superiore, che analizza da fuori e con maggior rapidità e precisione, potrà conferire stabilità all’anima. Dio così ha disposto affinché il nostro istinto di socievolezza senta più stimolo ad applicarsi nell’aiuto al prossimo e abbia più facilità nelle relazioni sociali.

 Un esempio di pratica di questa virtù cardinale

 La temperanza è la virtù che più caratterizza i Santi. Abbandonati nelle mani di Dio, accettano che la sua volontà si faccia in loro in tutto: se sopravviene loro un tormento, come quello di Giobbe, lo abbracciano; se un’eccellente notizia piena di gioia è loro annunciata, la accolgono senza alcuna euforia sfrenata o febbricitante.

 In questo senso, l’Autore di queste righe ha avuto, a un certo punto della sua esistenza, l’occasione di conoscere la virtù della temperanza, vissuta con brillantezza e con sfaccettature insolite, nella persona del Prof. Plinio Corrêa de Oliveira. Di fronte a un’informazione grave, egli era capace di prendere provvedimenti urgenti e, poi, si sedeva a cenare, evitando qualunque discorso riguardo al caso precedentemente trattato, discorrendo allora con tutta calma su temi dottrinali, attinenti alla considerazione delle realtà più elevate e sublimi. Terminato il pasto, come pure le sue preghiere, interessandosi nuovamente della questione che prima lo preoccupava, subito ritornava alle attività quotidiane e, se fosse stato necessario, le prolungava fino a notte fonda. Infine, una volta concluse, conciliava il sonno nella più completa tranquillità. In ogni istante, nella quotidianità, si poteva osservare questa stessa nota dominante di placidità che gli dava la facoltà di passare dalle questioni più drammatiche ad altre soavi e serene, senza il minimo soprassalto, con completo dominio di se stesso.

III – Dove trovare il vero rimedio al dolore?

 I pensieri che la Liturgia ci suggerisce, in questo giorno, trovano la chiave in un versetto del Salmo Responsoriale: “Il Signore sostiene gli umili” (Sal 147, 6). Infatti, gli umili, coloro che praticano la temperanza – virtù estranea agli orgogliosi – e si sottomettono alla correzione, alla mortificazione e al dolore, presto o tardi Dio dovrà esaudirli e proteggerli.

 Quando permise al demonio di tormentare Giobbe, Dio voleva che quell’uomo giusto crescesse ancor più nella temperanza e, pertanto, nella santità, per cumularlo, in seguito, di meriti e concedergli in maggior grado la partecipazione alla vita divina. Comprendiamo, allora, quanto le tribolazioni che ci colpiscono siano, in fondo, permesse da Dio, in vista di una ragione superiore. Egli non può promuovere il male per la nostra anima, e così agisce perché ci ama e desidera darci molto di più di quello che ci ha dato. E poiché è buono, mentre consente le avversità, Egli, nel contempo, ci conforta, come sottolineano alcuni altri versetti del Salmo Responsoriale: “Lodate il Signore: è bello cantare al nostro Dio, […]Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite” (Sal 147, 1.3).

 ChinandoSi sulla suocera di Pietro e facendole sparire la febbre, o sanando la moltitudine afflitta da malattie e tormenti, Nostro Signore non voleva insegnare che il dolore debba esser eliminato. Al contrario, tanto lo considerava un beneficio per l’uomo, che Lui stesso ha abbracciato la via dolorosa e l’ha scelta anche per sua Madre. In questi miracoli – come in numerosi altri operati durante il suo operato pubblico – Egli ha restituito la salute per lasciare una lezione agli Apostoli, ai presenti e agli stessi malati: la luce è in Lui, la vita è in Lui, la soluzione del dolore proviene da Lui! Più avanti, nell’imminenza di resuscitare Lazzaro, Egli dirà: “Io sono la Resurrezione e la Vita!” (Gv 11, 25).

 Abbracciamo il dolore con gli occhi puntati sulla Croce di Cristo

 Oggi siamo invitati ad accettare il dolore come una necessità, e a comprenderlo come un elemento fondamentale per l’equilibrio dell’anima, affinché essa non si attacchi più alle creature e giunga alla piena unione con Dio. Se ci sentiamo propensi a chiederGli che faccia cessare un dolore, preghiamo con fiducia, certi che saremo ascoltati; però, se riceviamo l’ispirazione a sopportare con rassegnazione l’avversità – sia essa una malattia, una prova o una semplice difficoltà –, supplichiamoLo che ci dia le forze imprescindibili per vivere con gioia, di cui Lui stesso ha dato l’esempio, insieme alla sua Santissima Madre. Soprattutto, non cediamo alla cattiva tristezza, quella che produce lo sconforto, e manteniamo in fondo all’anima la determinazione a compiere la volontà di Dio; lì, sì, verrà la pace.

 Una volta, l’Autore era in ospedale, in attesa di essere visitato, trovandosi in una situazione di grave rischio di vita, quando giunse una povera donna che gridava e si lamentava, probabilmente colpita da una forte indisposizione. Allora le ha detto: “Signora, pensi un po’, entrambi stiamo soffrendo; ma cosa sono le nostre amarezze a confronto con quella di Nostro Signore

 Gesù Cristo? Per amore a noi Lui Si è lasciato uccidere come un agnello e non ha emesso neppure un gemito sulla Croce! FacciamoGli compagnia in questa nostra tribolazione e offriamo i nostri dolori per consolarLo”. Lei ha chiuso gli occhi, trattenuto le lacrime e ha recuperato la calma. Il ricordo delle sofferenze del Redentore nel corso della Passione è un lenitivo straordinario per i nostri dolori.

 L’Innocente, Colui la cui natura umana è unita alla natura divina nella Persona del Verbo, è arrivato a esclamare prima di spirare: “Elì, Elì lemá sabactáni – che significa: Mio Dio, mio Dio, perché Mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46). Misteriosamente – in una maniera che la nostra ragione non comprende –, Egli ha patito nella sua Anima quel sentimento dell’abbandono, “per la mancanza di qualsiasi tipo di gioia e di conforto che mitigasse le pene amare e la tristezza della Passione”.12 Perché? Perché il Padre voleva per Lui tutta la gloria!

 La via che Dio ha tracciato per Maria Santissima, la Mater Dolorosa – creatura purissima, senza macchia alcuna di peccato originale –, è stata anche per Lei quella del dolore, come abbiamo già affermato. Presentando il Bambino Gesù nel Tempio, Ella ha udito dalle labbra di Simeone una profezia, secondo la quale una spada avrebbe trafitto la sua anima (cfr. Lc 2, 35); in seguito, dovendo fuggire con il Divino Infante in Egitto, e, più tardi, perdendoLo per tre giorni a Gerusalemme, le sue angosce si sono prolungate fino a culminare nel Calvario. E anche dopo le gioie della Resurrezione, Lei è rimasta ancora quindici anni qui sulla Terra in assenza di suo Figlio… Sofferenza continua, che ha fatto di Lei la Corredentrice, poiché, mentre per tutti noi la consolazione nelle afflizioni consiste nel considerare Cristo sulla Croce, per Lei – come afferma molto puntualmente Sant’Alfonso de’ Liguori13 –, la contemplazione della Passione non Le portava sollievo alcuno, poiché era stata questa stessa la fonte dei suoi dolori.

 Chiediamo a Nostro Signore Gesù Cristo, che tutti i giorni Si immola in forma incruenta nel Santo Sacrificio dell’Altare, che versi, per intermediazione della Vergine Maria, torrenti di grazie su di noi, per convincerci dei benefici del dolore da affrontare, così, con elevazione di spirito e occhi puntati sulla sua Croce.

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1 Cfr. PIO XI. Miserentissimus Redemptor, n.5; LYONNARD, SJ, Jean. El apostolado del sufrimiento o las víctimas voluntarias para las necesidades actuales de la Iglesia. Madrid: Viuda e Hijo de Aguado, 1887, p.7.ol
2 CCE 1500-1501.
3 CCE 1435.
4 SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.141, a.2; a.3.
5 SANT’AMBROGIO. Tratado sobre el Evangelio de San Lucas. L.IV, n.63. In: Obras. Madrid: BAC, 1966, vol.I, p.221.
6 SAN GIROLAMO. Tratado sobre el Evangelio de San Marcos. Homilía II (1,13-31). In: Obras Completas. Obras Homiléticas. Madrid: BAC, 1999, vol.I, p.849.
7 SAN RABANO MAURO. Commentariorum in Matthæum. L.III, c.8: ML 107, 861.
8 Cfr. WILLAM, Franz Michel. A vida de Jesus no país e no povo de Israel. Petrópolis: Vozes, 1939, p.134.
9 Cfr. TUYA, OP, Manuel de. Biblia Comentada. Evangelios. Madrid: BAC, 1964, vol.V, p.635; LAGRANGE, OP, Marie-Joseph. Évangile selon Saint Marc. 5.ed. Paris: Lecoffre; J. Gabalda, 1929, p.26.
10 Cfr. PETITOT, OP, L. H. La vida integral de Santo Tomás de Aquino. Buenos Aires: Cepa, 1941, p.147; GOMÁ Y TOMÁS, Isidro. Santo Tomás de Aquino: época, personalidad, espíritu. Barcelona: Rafael Casulleras, 1924, p.79.
11 Cfr. JOYAU, OP, Charles-Anatole. Saint Thomas d’Aquin. Tournai: Desclée; Lefebvre et Cie, 1886, p.162-163.
12 SUÁREZ, SJ, Francisco. Disp.38, sec.2, n.5. In: Misterios de la Vida de Cristo. Madrid: BAC, 1950, vol.II, p.154.
13 Cfr. SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI. Glórias de Maria. 2.ed. Aparecida: Santuário, 1987, p.364-365.