Preghiera del pubblicano e del fariseo.

Preghiera del pubblicano e del fariseo.

Vangelo 

9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10 “Due uomini salirono al Tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: ‘O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo’. 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ‘O Dio, abbi pietà di me peccatore’. 14 Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18, 9-14).

Quando è inutile pregare?

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

Mons. João Scognamiglio Clá Dias,EP

Se vogliamo avere la certezza che la nostra preghiera sia accolta da Dio, dobbiamo imitare il modo di pregare del pubblicano, umiliandoci davanti a Lui, chiedendo perdono per i nostri peccati.

I – L’orgoglio: causa di tutti i vizi

“Serpenti! Razza di vipere!” (Mt 23, 33). Ecco alcuni degli appellativi usciti dalle divine labbra di Gesù per designare i farisei. In questo stesso capitolo di Matteo, sono raggruppate le principali recriminazioni di cui furono oggetto: erano “ipocriti”, defraudavano le vedove, chiudevano le porte del Regno del Cielo, trasformavano i loro proseliti in figli dell’inferno, erano “stolte guide cieche”, “sepolcri imbiancati”, eredi della maledizione per il “sangue innocente versato sulla terra”.

In realtà furono loro i più ferrei oppositori del Regno di Dio, portato dal Messia. Nonostante le prove riguardo al Regno fossero numerose ed evidenti, essi non solo le rigettavano ma, se era loro possibile, le tacevano o ne offrivano malevole interpretazioni.

In quale luogo delle loro anime sarà stata infissa la radice di questo terribile peccato contro lo Spirito Santo?

La più pericolosa delle vanità

I farisei avevano avuto un’origine virtuosa, quando avevano cercato di separarsi da coloro che si lasciavano influenzare dal mondano relativismo propagato dalla Grecia, circa duecento anni prima di Cristo. Tuttavia, per mancanza di vigilanza e ascesi, come non poche volte accade, caddero in una delle più pericolose vanità: quella che si unisce al desiderio di perfezione.

Nell’abbracciare le vie della santità, è indispensabile per il cristiano collocare l’interesse per Dio al di sopra di tutta la creazione, come pure rivolgere all’interesse verso il prossimo una attenzione maggiore che ai propri, di ordine personale, e questi, affidarli alla Provvidenza Divina, proprio come insegna il salmista: “Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro nome da’ gloria” (Sal 113, 9).

I farisei si erano dimenticati che era necessario porre un freno nel loro animo, per evitare la loro smoderata esacerbazione, praticando, così, l’essenziale virtù dell’umiltà, proprio come la definisce San Tommaso d’Aquino: “L’umiltà reprime l’appetito, affinché esso non cerchi grandezze al di là della retta ragione”.1 “È importante che conosciamo ciò che ci manca, in comparazione con ciò che eccede la nostra capacità. È proprio, infatti, dell’umiltà, come norma e direttrice dell’appetito, conoscere i propri difetti”.2

In assenza della virtù dell’umiltà, lento ma profondo e fatale è stato il processo di una separazione dagli altri del popolo, in un principio buona e persino necessaria, per compiere su di sé una metamorfosi in una supervalorizzazione delle loro autentiche o supposte qualità morali. È sufficientemente illustrativo di questo stato d’animo, ascoltare le parole, uscite dalle labbra di un rabbino, e raccolte dal Talmud: “Diceva R. Geremia, chiamato Simone, figlio di Jochai: Io posso compensare i peccati del mondo intero, dal giorno in cui sono nato fino ad oggi; e se mio figlio Eleazar morisse, potrei liberare tutti gli uomini che sono esistiti nel mondo, dalla sua creazione fino ad oggi. E se ci fosse con noi Jotán, figlio di Uzias, potremmo fare questo di tutti i peccati, dalla creazione del mondo fino al suo termine […]. Vedevo i figli del banchetto divino, ed erano pochi. Se fossero stati mille, mio figlio ed io saremmo stati tra loro; se fossero stati soltanto due, saremmo stati mio figlio ed io”.3

Chi si lascia condurre dall’orgoglio non rispetta i limiti

Una volta perduta l’umiltà, per la vana compiacenza di se stessi, l’orgoglio nel fariseo – come in qualunque caso – non ha più rispettato alcun limite. Insuperbito, si è collocato al centro delle attenzioni, esaltando le proprie qualità. Non solo disprezzava quelle del prossimo, ma cercava anche di esagerarne i difetti, quando invece alle volte li possedeva in un grado maggiore.

A causa della sua incontenibile arroganza, il fariseo invariabilmente credeva di avere ragione nelle sue opinioni. Gli insuccessi accadevano sempre perché non aveva mai cercato di farsi consigliare. Se molti discordavano dal fariseo, in fondo era perché la saggezza appartiene ad una minoranza scelta. Se tutti erano unanimi con lui, si sentiva il dirigente. Se ci fosse stata un’autorità alla quale lui avesse dovuto sottomettersi, avrebbe cercato di dominarla; tuttavia, siccome il più delle volte ciò non era facile, egli veniva alla censura, alla critica e al sabotaggio, finendo per entrare nelle vie della disobbedienza. Inoltre, si mostrava sempre ingrato, perché qualunque beneficio gli si facesse era considerato un atto di pura giustizia e, per questo, non ringraziava mai.

Come ogni orgoglioso, il fariseo, nel costituirsi come il centro delle attenzioni, non tollerava chi non gli girasse intorno e, preso da invidia, fomentava discordie sempre quando le circostanze le esigessero, dando mano, senza alcuno scrupolo, a diffamazioni, calunnie, ecc.

Nei farisei, l’ipocrisia si somma all’orgoglio

Essenzialmente, egli era un egolatra, ma, per la sua raffinata ipocrisia, si presentava rispettoso davanti a Dio e giusto in relazione agli uomini. Siccome non sempre riusciva ad occultare alcuni dei suoi vizi evidenti, negava che essi lo fossero.

Povero fariseo! Non si rendeva conto dei mali che incombevano su di lui, poiché cercava la gloria dove non esisteva. Egli non percepiva quanto il vizio della superbia fosse il primo, non solo a manifestarsi esteriormente, ma anche ad essere distinto da tutti, velocemente. Egli moriva, forse, senza averlo esplicitato, ma coloro che convivevano con lui lo avevano già catalogato.

Come avrebbe potuto correggersi il fariseo da questo difetto, non volendo riconoscersi vittima di un male così grave? Già si reputava un santo…Gli era molto difficile convertirsi, poiché, proprio come dice Santa Teresa, l’umiltà è la verità.4

Gli sarebbe stato indispensabile vedersi, e persino sentirsi, tale quale era; riuscire a discernere chiaramente il procedere dei lati buoni e cattivi della sua anima. Se così fosse stato, avrebbe riconosciuto il bene che c’era in lui, per attribuirlo immediatamente a Dio. Alla stessa maniera, nel constatare la propria cattiveria, le sue mancanze e i suoi peccati, li avrebbe attribuiti alla propria volontà deteriorata e perversa. Impostando così il suo spirito, con flessibilità avrebbe ammesso che senza l’ausilio della grazia, il cristiano non solo smette di compiere in modo stabile i Comandamenti della Legge di Dio, ma è anche incapace di pronunciare una parola buona. Egli mai avrebbe parlato di se stesso o delle sue virtù e, se per ragioni di forza maggiore, fosse stato obbligato a farlo, avrebbe imitato San Paolo: “Gratia Dei sum id quod sum – Con la grazia di Dio, sono quello che sono” (I Cor 15, 10).

Se fosse entrato per queste vie, il suo “intimo sarebbe stato luminoso” poiché il suo occhio sarebbe stato pulito (cfr. Mt 6, 22); non avrebbe più avuto la vista accecata dall’amor proprio. Avrebbe distinto la presenza di Dio ad ogni passo, in tutte le circostanze della sua vita e, d’altra parte, non si sarebbe fatto illusioni sulla debolezza, le inclinazioni e la malizia della creatura umana.

Mancava al fariseo di apprendere con Santa Teresa quanto è necessario procedere nella verità: “Una volta stavo considerando la ragione per la quale Nostro Signore era tanto amico di questa virtù dell’umiltà, e mi è capitato – secondo la mia opinione, senza ponderazione alcuna, ma all’improvviso – quanto segue: è perché Dio è la suprema Verità, e l’umiltà consiste nel procedere nella verità; ed è una verità molto grande sapere che in noi non c’è niente di buono, ma solo miseria e nient’altro; e chi non capisce questo, procede nella bugia. E chi più capisce questo, più fa cosa gradita alla suprema Verità, perché in essa procede”.5

Se il fariseo avesse seguito questo cammino, non avrebbe mai riposto la sua fiducia in se stesso, ma solo in Dio, sottomettendosi in tutto alla sua santissima volontà. Avrebbe avuto verso gli altri una reale carità, come raccomanda San Tommaso d’Aquino: “Dobbiamo non solo onorare Dio in Se stesso, ma anche ciò che è di Dio, in qualunque persona”.6 “Qualcuno può, senza falsità, ‘riconoscersi e mostrarsi come il più indegno di tutti’, tenendo conto dei difetti occulti che ha dentro di sé e i doni di Dio occulti negli altri. Per questo, Agostino dice: ‘Reputate, interiormente, superiori quelli che vi sono, esteriormente, inferiori’. Allo stesso modo, senza finzione, qualcuno può ‘confessarsi e credersi indegno e inutile per tutto’, per le sue proprie forze, attribuendo a Dio ogni sua capacità, in base a quanto si dice: ‘Non è a causa di una capacità personale, che potremmo attribuire a noi stessi, che siamo capaci di pensare; è da Dio che viene la nostra capacità’”.7 Proprio per questo, il fariseo, nel constatare i progressi spirituali realizzati con l’aiuto della grazia, nella pratica della virtù, dovrebbe averli considerati come relativi, e riconoscere quanto avrebbe potuto corrispondere di più ai doni di Dio.

Preghiera del pubblicano e del fariseo – Chiesa di Sant’Apollinare di Ravenna

Sublime esempio del Divino Maestro

Ecco alcune ragioni per le quali tante volte troviamo nelle Sacre Scritture l’incentivo all’umiltà. Come sarebbe stata diversa la Storia, se i farisei avessero ascoltato e amato l’invito del Divino Maestro: “Imparate da Me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11, 29). Se fossero stati presenti all’atto praticato da Gesù, in occasione della Santa Cena, e avessero raccolto nel loro cuore le parole da Lui proferite subito dopo: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13, 15-17), avrebbero avuto in più, la vera pace dell’anima e la completa felicità.

Rivolgiamo ora, il nostro sguardo alla parabola proposta dalla Liturgia di oggi.

II – La parabola del fariseo e del pubblicano

9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di
esser giusti e disprezzavano gli altri…

Sono interessanti le considerazioni fatte dai commentatori a proposito della presente parabola. Tra queste spicca quella di Sant’Agostino, in relazione col versetto precedente: “Ma, quando verrà il Figlio dell’Uomo, troverà per caso fede sulla Terra?” (Lc 18,8). La fede è la virtù di chi ripone la sua fiducia in Dio e non in se stesso. “La fede non è del superbo, ma dell’umile. Contro la superbia, [Gesù] dice la parabola sull’umiltà”,8 che va diretta a coloro che non compiacciono Dio con le loro presuntuose preghiere. La stima squilibrata dei propri meriti va contro la realtà, sopratutto, quando l’orgoglioso si ritiene impeccabile. In teoria, con la grazia di Dio e con l’esistenza del libero arbitrio, potrebbe esserci un uomo senza peccato ma, eccezion fatta per il Figlio dell’Uomo e per sua Madre Santissima, non ce n’è nessun altro, secondo il Salmista: “Non chiamare in giudizio il tuo servo: nessun vivente davanti a te è giusto” (Sal 143, 2), o meglio ancora, come afferma San Giovanni: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (I Gv 1, 8).9

La parabola è destinata a coloro che sopravvalutano le loro qualità, ritenendosi santi e persino impeccabili, e trattano gli altri con disprezzo. Si tratta di un guanto fatto su misura per adattarsi a una mano farisaica, o di coloro che possono essere classificati come loro discepoli, imbevuti, pertanto, dello stesso spirito. Tre sono i vizi presi di mira: la fiducia in se stessi, la presunzione di santità e il disprezzo degli altri; vizi questi, contrari alle virtù: fede, umiltà e carità.

10 “Due uomini salirono al Tempio a pregare: uno era fariseo e
l’altro pubblicano”.

Ecco una semplice frase permeata di sostanziosi significati. Alla stessa ora e con lo stesso intento di pregare, salgono sul monte Moriah, dove si localizza il Tempio, due uomini: un fariseo e un pubblicano. Il primo già è noto. Il secondo appartiene alla classe da tutti considerata di peccatori, odiata perché riscuoteva imposte a servizio dei romani. Secondo il giudizio umano, il fariseo è giusto, pieno di virtù e devoto, e certamente andrà a recitare un’eccellente preghiera. L’altro, al contrario, peccatore tanto spregevole, non riuscirà se non ad attirare su di sé lo scandalo di tutti e la collera di Dio stesso.

Il fariseo uscì dal Tempio sovraccaricato del suo orgoglio

Inutile preghiera del fariseo

 11 “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: ‘O Dio, ti ringrazio che
non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come
questo pubblicano.12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime
di quanto possiedo’”.

Sarà difficile credere che questa preghiera non sia stata reale. Nella sua divinità, quante volte Gesù non ha ricevuto, dalle creature umane, pensieri simili o persino più orgogliosi di questo? Si può parlare di preghiera? No! Si tratta di un profondo atto di orgoglio, di un autoelogio, e di un insolente disprezzo verso gli altri uomini.

“Ti ringrazio…”. Niente di meglio che rendere grazie a Dio. È devoto e meritorio, ma questa impostazione di spirito deve procedere dalla considerazione della nostra nullità, da un vigoroso sentimento delle nostre debolezze e miserie, come anche dall’adorazione di Dio per la sua infinita misericordia, non solo sospendendo i castighi che ci sarebbero dovuti, ma esattamente al contrario, colmandoci di doni e grazie.

Non è, tuttavia, questa l’azione di grazie del fariseo; egli esalta se stesso ed insulta tutti gli altri. “Cerca quello che egli chiede a Dio con le sue parole, e non lo scoprirai. È salito al Tempio per pregare e non ha voluto pregare Dio, ma lodare se stesso. Triste cosa è lodarsi invece di pregare Dio; oltre a questo, aggiunge il disprezzo per colui che pregava”.10 “Con questo, ha aperto con l’orgoglio la città del suo cuore ai nemici che la assediavano, città che egli inutilmente aveva chiuso con la preghiera e il digiuno: sono inutili tutte le fortificazioni quando in esse c’è una breccia per dove può entrare il nemico”.11

La preghiera umile ha salvato il pubblicano peccatore

13 “Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno
alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ‘O Dio,
abbi pietà di me peccatore’”.

Attitudine, spirito e parole completamente differenti da quelle assunte e formulate dal fariseo. Nel pubblicano, tutto è umiltà, contrizione e richiesta di clemenza. Usando una pratica che ormai non si vede più nelle chiese, si batteva il petto senza rispetto umano. Contrariamente alle “mode devote” di oggi, nessuna leggerezza di spirito, nessuno spreco o perpetua agitazione; parlava a Dio. Molto diversamente da altri che al giorno d’oggi, entrano nelle Chiese senza aver fatto neppure una preghiera. Il pubblicano ci dà molti esempi, anche per ciò che riguarda la sostanza della sua supplica: “Mio Dio, abbi pietà di me che sono peccatore”.

L’umiltà del pubblicano

Sentenza proferita da Gesù

14 “Io vi dico: questi tornò a casa sua
giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e
chi si umilia sarà esaltato”.

“Al momento di entrare nel Tempio, i due personaggi, seppur appartenenti a categorie religiose e sociali differenti, erano, in fondo, molto simili. Al momento di uscire, sono radicalmente differenti. Uno era ‘giustificato’, ossia, era giusto, perdonato, era in pace con Dio, era stato rinnovato. L’altro è rimasto come era all’inizio; anzi, forse aveva peggiorato la sua posizione davanti a Dio. Uno ha ottenuto la salvezza, l’altro no”.12

Fissiamo bene la nostra attenzione: si tratta qui di una sentenza proferita dall’infallibile e sovrano Giudice, lo stesso Figlio di Dio, sentenza non poche volte differente da quella degli uomini. Se, senza le luci della grazia fossimo chiamati a scegliere uno degli apostoli per essere il primo dei Pontefici della Santa Chiesa, non sarebbe esagerato immaginare che alcuni li giudicheremmo pretenziosi, altri, poco attivi, lo stesso Pietro, esagerato e imprudente. Chissà se, prima di diventare traditore, avremmo scelto Giuda per la sua grande discrezione, sicurezza e abilità nelle finanze, tanto più che egli giunse a criticare Maddalena per lo sperpero di denaro in profumi per il Maestro, quando c’erano, allora, molti poveri e bisognosi. Da qui ci rendiamo conto di quello che ne sarebbe della stessa Chiesa se non fosse lo Spirito Santo a dirigerla; e di quello che sarà di noi se non ci sottometteremo alle sue ispirazioni.

III – L’umiltà ha portato in Cielo un ladrone

La Liturgia di oggi ci può pertanto essere utile per un proficuo esame di coscienza: fino a che punto siamo umili come il pubblicano? O ci sarà nelle nostre anime, qualche frangia dello spirito farisaico? Qualunque siano i risultati di questo esame, ricordiamoci che: “L’umiltà ha portato in Cielo un ladrone, prima degli Apostoli. Ora, se unita ai crimini lei è capace di tanto, quale non sarebbe il suo potere se fosse unita alla giustizia? E se la superbia è capace di violare la giustizia, che cosa non riuscirà a fare se si alleerà al peccato?”.13

1) SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.161, 
a.1, ad 3.

2) Idem, a.2.

3) TRACT SUCCAH, c.IV. In: THE BABYLONIAN TALMUD. Tracts 
Betzah, Succah and Moed Katan. Trad. Michael Levi Rodkinson. 
New York: New Talmud Publishing,1899, p.67-68.

4) Cfr. SANTA TERESA D’AVILA. Castillo Interior. 
Moradas sextas, c.X, n.7. In:Obras Completas. 2.ed. 
Burgos: Monte Carmelo, 1939, p.617-618.

5) Idem, ibidem.

6) SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., a.3, ad 1.

7) Idem, a.6 ad 1.

8) SANT’AGOSTINO. Sermo CXV, n.2. In: Obras. 2.ed. 
Madrid: BAC, 1958, v.VII,p.438.

9) Cfr. SANT’AGOSTINO. De peccatorum meritis et remissione.
L.II, n.8. In: Obras. Madrid: BAC, 1952, v.IX, p.320-321.

10) SANT’AGOSTINO. Sermo CXV, n.2, op. cit., p.439.

11) SAN GREGORIO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO. Catena Aurea.
In Lucam,c.XVIII, v.9-14.

13) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, apud CORNELIO A LÁPIDE. 
In Luc. In:The great commentary of Cornelius a Lapide. 
S. Luke’s Gospel. 3.ed. London: John Hodges, 1903, p.447.

Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.